Tutti i giorni passo in tangenziale di fianco al “termo-valorizzatore” di Brescia il cui camino è un parallelepipedo slanciato, colorato con una sfumatura graduale di blu-azzurro.
In ogni condizione del cielo, accoppia in un modo incantevole sfondo e figura, con un uso essenziale e pulitissimo dello spazio.
Da quel tubo così perfetto ed elegante ogni giorno passano tonnellate di nanoparticelle infinitamente più piccole del PM10, che entrano nei pori, negli alveoli polmonari; c’è un’industria miliardaria che fa soldi con la nostra salute bruciando il nostro pattume.
La lobby degli inceneritoristi ha amici tra i politici di ogni area e controlla la stampa, ma il cancro che è arrivato a persone a me care dev’essere partito proprio da quel bellissimo slanciato tubo di blu sfumato.
Non è vero che bello è buono; il gusto estetico, come l’intelligenza, è in vendita e i da sempre potenti si possono permettere le prostitute più belle.

D’istinto pensiamo che bello = buono. In natura spesso è così, il fiore è bello perché chiama l’insetto impollinatore, l’individuo dell’altro sesso attrae perché è la stagione degli amori, eccetera.
Noi umani oggi con fatica scopriamo che spesso bello non significa buono: c’è la trappola, il travestimento, la mistificazione, la seduzione in malafede. Separare buono e bello è una fatica, in qualche modo è una schizofrenia.

Tornassimo a zappare

«La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere.» diceva in un verso di John Keats quasi 200 anni fa guardando un’urna greca. «Il bello non è vero», scriveva invece Leopardi solo cinque anni dopo.
Vorrei dare ragione a Keats, ma mi tocca dar retta a Leopardi, me lo dice la mia pancetta sovrabbondante.
200 anni fa (ma anche 100, anche 50…) le donne lavoravano nei campi e mangiavano cereali e verdure: erano magre, toniche ed abbronzate come oggi vorreste essere voi, care lettrici; ma allora il prototipo di bellezza era una donna pienotta, morbida, languida, un po’ atona: carne bianca come la neve con guancette rosse come le mele.
Voi ora state in ufficio e mangiate cibo industriale, siete delle bellissime ottocentesche: cicciottelle morbide, pallide, languide, un po’ atone. Invece di leggere Keats e compiacervi davanti allo specchio contemplando i vostri candidi rotoli inguinali voi, iconoclaste che non siete altro, vi massacrate di diete, lampade e palestra. Le contadine, per zappare, le pagavano: poco, ma le pagavano; voi, in palestra, non vorrei dire… Lo faccio anch’io che sto scrivendo, ma mentre alzo i manubri o pedalo su una cyclette fatico molto a non sentirmi cretino, per due motivi:
1, uso come paragone delle mie cicce il ventre marmoreo del limitrofo bisteccone professionale, e ditemi voi se questo non significa farsi del male da soli; significa che mi assimilo a un standard estetico che non mi appartiene, e che anzi che mi fa pure un po’ fastidio.

2, tutte quelle calorie che il mio corpo emette non generano lavoro ma consumo: questa è il modo più imbecille di faticare mai adottato da muscoli umani da millenni, designa inequivocabilmente che abbiamo superato il culmine dell’evoluzione umana e che d’ora in poi regrediamo verso l’ameba.

Ci costruiscono sbagliati di default.

Nei miei albori professionali son passato dal meraviglioso mondo della moda milanese. Vi testimonio che è vero: perfino le bellissime indossatrici quando si guardano nello specchio non si piacciono.
Me ne ricordo una sui vent’anni in un backstage che mi urlava disperata mostrando che aveva la cellulite stringendosi un gluteo (una semisfera levigata e marmorea collocata all’altezza in cui noi umani abbiamo il torace) in piena crisi nevrotica con tanto di vomito e sfasciamento di piccole suppellettili simboliche. Questo aneddoto risale a decenni fa, lo raccontavo a ogni conferenza sottintendo alle signore in sala: perfino le modelle non si piacciono quindi voi rilassatevi pure, la vostra reale forma fisica c’entra ben poco con l’arte di piacersi; finché una delle signore in sala mi ha riferito che la maggior parte capiva a modo suo: se perfino le modelle non si piacciono, figurati io. Così ora racconto di Rubens col pennellino piccolo che piano piano dipinge la cellulite, un pallino alla volta, alle cosce della sua sensualissima Venere al Bagno. Che voluttà!

C’è poi lo stereotipo dell’età. I bambini vorrebbero crescere in fretta per avere già vent’anni. A venti – venticinque anni è un’età di cacca: di precariato sentimentale, lavorativo, abitativo, ideologico, geografico e in tutti gli altri sensi, specialmente oggi che i giovani stanno peggio dei vecchi. Verso i venticinque cominci a sentirti un po’ vecchio, e vai avanti così fino a 90 rimpiangendo i 25.

E vogliamo parlare dell’identità maschile? E dei ruoli (non sei un bravo marito, non sei una brava moglie, non sei un bravo genitore…)? E di quella trappola vecchissima (che funziona meno, ma funziona ancora) della merce come indice dello status sociale, tipo: comprare il macchinone per essere invidiato e ammirato?

Il marketing ci programma per non piacerci

Dunque abbiamo parlato prevalentemente della bellezza femminile perché ha gli stereotipi più evidenti, ma i programmi di disinstallazione dell’autostima sono elaborati per ambo i sessi e per tutte le età.
Il perchè è semplice: citando Beigbeder, “la gente felice non consuma”1.

1 Frédéric Beigbeder Lire 26.900 Feltrinelli