Libri sullo smarketing

I dinosauri si sono estinti, le formiche no.

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1 Lealtà

Serve lealtà tra chi vende e chi compra

Qualche decennio di spavalderia anti-etica nel nome del busines is business, ha declassato il tema della lealtà nel dominio delle ingenuità e dell’idealismo.
Invece dai tempi in cui la prima nave fenicia buttò l’ancora è l’elemento statutario nella storia del commercio.

Propongo due metafore: l’esca che seduce il pesce e la corolla di un fiore che seduce l’insetto impollinatore.

In entrambe c’è qualcosa di buono (cibo, colore, profumo) che attira con un premio.

Nel primo caso c’è l’esca studiata per essere piacevole: un odore che piaccia al pesce, un colore e un movimento che lo attiri; sotto l’esca c’è l’inganno. Se vince il pescatore il pesce prede e viceversa, molti di voi avranno già letto della “teoria matematica dei giochi” che analizza questa situazione tra vincente e perdente. Matematici ed economisti distinguono i giochi cooperativi e quelli non cooperativi; il concetto è semplice, se perdere vale meno uno e vincere vale più uno, il gioco tra pescatore e pesce è sempre a somma zero. Come una partita di calcio.

Nel caso del fiore c’è un criterio di lealtà: l’insetto gode di una piacevolezza assoluta di cibo, colore, profumo…; non muore di questo, anzi ci campa e probabilmente gode di un piacere supremo che in noi assommerebe quello sessuale, gastronomico, estetico, olfattivo, cromatico e chissà quanti altri. Non fa altro tutta la vita e ci fa pure le scorte per l’inverno. È un gioco “a somma diversa da zero”: o entrambi vincono o entrambi perdono.

Pare che la base della teoria fosse stata formulata dal matematico Jhon Forbes Nash (quello di “A Beutiful Mind”) quand’era giovanissimo studente, per corteggiare con successo le ragazze del campus. Come dei fessi tutti i maschietti facevano il cascamorto con la più carina, come se fosse un gioco a somma zero: come è facile immaginarsi perdevano tutti, lei non ci stava e le altre fanciulle, naturalmente, preferivano ragazzi di altre facoltà. Era un gioco a somma diversa da zero.

Noi ci muoviamo in un ”mercato” diverso dalle ragazzine del college, ma quasi sempre facciamo lo stesso errore, agendo competitivamente dove serve collaborazione, cooperazione e sinergia. Se vi interessa approfondire, studiate “Teoria dei giochi” su Wikipedia.

 

Uno vince e uno perde

Gioco a somma zero

Esca appetitosa:
seduzione manipolatoria
Trabocchetto

La trasparenza è un difetto

Bello non è buono

O vincono entrambi,
o perdono entrambi

Gioco a somma diversa da zero

Fiore (colore, profumo…)
seduzione piacevole
Lealtà

La trasparenza è un vantaggio

Bello è buono

 

10 Sbagliare la materia

Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni

William Shakespeare

Se vuoi parlare di ecologia o di etica e mostrare a tutti che sei un bugiardo, o quantomeno un gran superficiale, il sistema è semplice: usa carta di cellulosa vergine. Meglio ancora se è patinata da 200 grammi e ne usi tanta, magari con abuso di inchiostri colorati. L’effetto è certo.
Lo so;  quasi tutti gli stampatori di provincia in magazzino ne hanno solo di pessima o di carissima e ti racconteranno la diffusa squalificante scusa:  “tanto non è vero che quella riciclata inquina di meno”.
Se dicono così sono bugiardi o male informati, quindi scarsamente professionali (in fondo a questo capitolo troverete i dati ecologici). In questo caso porse vi verrebbe voglia di rinunciare: di stampare su carta “normale” per premura e per ridurre le complicazioni; non fatelo. Dovete cambiare subito stampatore, per ottenere un buon lavoro e per rieducare la categoria.
E anche per salvarla, perchè questa loro inerzia sulle vecchie abitudini dirotta tanti loro clienti verso il web to print (sigla W2P), cioè verso grandi aziende sovranazionali come Pixart o FlyerAlarm, a cui mandi via internet il pdf da stampare e dopo 48 ore ti arriva in ufficio il corriere che ti consegna la carta già stampata a un prezzo competitivo… (per le piccole tipografie di paese è un massacro, ma dove il tipografo è sleale questo massacro ci fa meno impressione).
Col W2P è possibile, tra le altre cose, anche una scelta di qualche carta riciclata (una varietà non ricca, ma abbastanza accettabile e sicuramente più economica).

Se la carta è pulita le parole respirano
Certo, la carta ecologica può mascherare il green washing. Oggi qualcuno parla anche di brown washing per indicare l’uso dei colori écru per far sembrare ecologico un prodotto che non lo è (evidente; al supermercato guardate i banchi del fresco o dei biscotti… quante porcherie industriali travestite!)
Tuttavia sicuramente una carta non ecologica denuncia che chi la usa è un inquinatore e un abbattitore di alberi; che fiducia meriterebbero le tue parole scritte su una carta che inquina il tuo lettore?

Quanto è ecologica l’estetica!
Davvero una carta con una nuance color terra è più brutta di quella bianchissima? Davvero una carta che al tatto è porosa e calda è peggiore di una fredda e liscia al punto di sembrare viscida? Davvero il suono che fa la carta e il suo odore non significano nulla a livello inconscio?
Oggi tutto intorno a noi è coperto da una superficie fittizia: compri delle mele bellissime lucide e colorate, ma le devi sbucciare per non avvelenarti; le sbucci su un vassoio che sembra di legno ma in realtà è solo coperto di plastica color legno, appoggiato su una cucina che sembra di marmo ma è solo agglomerato sintetico color pietra; alla fine le mangi e, mentre la radio ti coccola con una bella musica di sintesi, ti guardi allo specchio e ti chiedi se quella persona sei tu o è la tua cosmesi.
Siamo circondati da moltissimi oggetti ma la materia sostanziale di cui son fatti è nascosta, si vede solo la pelle di plastica lucida e coloratississima. Toccateli, odorateli, sentite se sono caldi o freddi: siamo intrappolati in un mondo anaffettivo, creato solo per ingannare l’occhio; siamo bravi a non impazzire, ma così non va assolutamente bene.
Googlate “privazione sensoriale”: scoprirete che in alcuni stati (polizieschi ma “democratici”) per indurre un detenuto al suicidio, si usavano stanze anecoiche (dove il suono non rimbomba) con obbligo di indossare i guanti e luci diffuse (senza ombre). L’assenza di percezioni (o più precisamente l’assenza di percezione neuronali di cambiamenti provocati dalla propria presenza) porta rapidamente a depressione e allucinazioni.
La città, gli appartamenti, i posti di lavoro… questo incubo di superfici senza grana, di oggetti senza odore e freddi al tatto, fa diventare rara e preziosa qualsiasi cosa che abbia una propria matericità, una propria filigrana, rugosità, imperfezione geometrica.

Tre motivi per sceglierla ecologica:

1. costruire uno stile in cui per essere bello un oggetto deve avere un corpo

Se racconti di aver fatto una scelta naturale, ecologica o innovativa, devi uscire dai cliché epidermici della carta “bella bianca”.
Anche un oggetto piatto e bidimensionale come la carta può avere una sua profondità.
La questione tecnica-grafica è che se usi una carta più materica e corposa (meno “plasticosa”) non puoi usarla trasferendo semplicemente su di essa quell’idea di “bello” basato su colori molto contrastati, grafica tecno, bianco abbacinante… un tale modo di far grafica, effettivamente, sui materiali naturali porosi e ruvidi può essere disastroso.
Occorre un’estetica che faccia virtù delle fibrosità, delle granulosità, delle textures; i colori si appastellano, la nitidezza deve essere migliore e con più aria, per gestire bene il segno dell’inchiostro sulla carta che risulterà un pochino meno nitido. Significa cambiare radicalmente stile; il risultato si vede.
Notiamo che questo passaggio è simulabile abbastanza bene: ci possono essere aziende che fanno finta di essere verdi usando bene i colori “sporchi” e la grafica un po’ granulosa su carte riciclate, se il progetto grafico è buono, esteticamente il risultato può essere bellissimo anche se eticamente non lo è affatto. Dunque non è automatico che chi fa questa scelta estetica sia sincero. Ma è automatico il viceversa, cioè: chi non la fa non è coerente.

2. generare mainstream

Il secondo motivo è che tutte le volte che facciamo comunicazione modifichiamo l’idea di cosa sia“normale”. Significa innanzitutto che molte persone scoprono il gusto di avere in mano un foglio sensorialmente diverso. Significa che associazioni, cooperative, gruppi cominciano finalmente a porsi il problema. Significa che diventa più probabile che uno stampatore abbia in casa la riciclata e che i grandi web to print (tipo Flyeralarm o Pixart) abbiano maggior scelta di carte ecologiche e uso mano.

3 inquinare meno per salvare il Pianeta.
Il terzo è il più importante, anche se è ovvio. L’ho lasciato in fondo ai tre perché implica un’altra questione: quanta carta usiamo; cioè occorre controllare la tiratura, usare anche i ritagli (per segnalibri, visita, piccoli gadget a costo zero…) e soprattutto progettare bene la comunicazione trasformando il vincolo in risorsa: ad esempio un volantino A5 se è scritto e impaginato bene è sicuramente più efficace di tante brossure patinate grandi come libri che si vedono nelle fiere
Ricordiamoci che molta della roba che abitualmente si stampa starebbe meglio su internet: per ecologia, e anche per economia e per reperibilità. Solo se stampate un testo importante che la gente vorrà leggere spesso, o che deve sopravvivere varie generazioni, (ad es. una storia locale con testimonianze degli anziani che tutti i compaesani vorranno avere in casa o cercheranno in biblioteca) allora forse vale la pena di consumare materie prime preziose. Ma quasi sempre si stampa carta senza questi due importanti scopi.
Invece ciò che ha vita breve, che dev’essere aggiornato frequentemente, che è difficile o costoso da distribuire, o comunque di cui non controlli bene la distribuzione e quindi non sai bene come calcolare la tiratura (spesso si stampa in quantità eccessiva illudendosi di risparmiare nell’economia di scala, poi restano tante copie inutilizzate in magazzino)… quasi sempre queste cose stanno meglio su internet.
Vale ovviamente per l’inutile brossura patinata di 30 pagine piena di testi in corporatese e foto trovate sulle banche immagini (sarà inutile anche su internet, ma almeno non avrà fatto guai).
Vale però anche per le cose importanti: non stampate su carta il vostro bilancio sociale di 120 pagine, anche se ci avete messo due mesi a farlo e se lì dentro c’è il senso del lavoro di tante persone: avreste difficoltà a distribuirlo e fra un anno sarà vecchio; basta stampare su carta l’abstract ben leggibile di 15 pagine: l’importante è mettere sul sito il PDF completo a disposizione di chiunque: chi ha interesse potrà accedervi, scaricarselo e magari trovare le parti che interessano usando la funzione di ricerca parola.

Non c’è solo la carta

La qualità materica e sensoriale non riguarda solo la carta. Già cominciamo a scoprire che i cibi troppo raffinati fanno male, che gli abiti in fibre sintetiche sono meno sani e durano meno. Quando parliamo del lay out del tuo negozio, degli imballaggi dei tuoi prodotti, delle stoffe, degli arredi, degli stand, perfino della voce che legge il tuo spot alla radio… il problema è simile. So benissimo quanto è pratico arrivare a una fiera col roll-up di PVC prestampato: lo porti con un trolley e in pochi minuti lo monti. Poi però diecimila persone ti passeranno davanti pensando che tu sei di PVC; e che sei come tutti gli altri. Non dico di cadere nell’eccesso opposto (tipo il lenzuolo di cotone scritto col pennarellone), ma una via di mezzo personale e creativa non è poi così difficile.

Approfondimenti

Naturale o patinata?
Ci sono due tipo di carta da stampa: quella naturale (o “uso mano”) e quella dove la porosità viene riempita da una patina mediante miscele chimico-fisiche. Un tempo la carta patinata (con caolino o carbonato di calcio) era considerata migliore perché coi vecchi processi di stampa c’era meno dispersione di inchiostro e il carattere risultava più nitido. Oggi è il contrario, la patinata moderna è di solito molto lucida e il riflesso rende difficoltosa la lettura, specie se si ha una luce alle spalle o se si legge in piedi all’aperto. Quando ricevi la copia stampata in mano non è come sembrava nel monitor: lo stampato lucido appare più finto, più “plasticoso”. La “uso mano” moderna invece è più economica ma tiene benissimo l’inchiostro; al tatto è più calda vellutata e porosa; ha una personalità fisica.
A tutti conviene la scelta più economica quando è anche la migliore qualitativamente; ma ancora di più a chi stampa contenuti ecologici o legati alle buone pratiche.

Grezza o sbiancata?
Nel processo “normale” la pasta di cellulosa si sbianca mescolandola con cloro e biossido di cloro: sono sostanze molto inquinanti perché entrano nel circuito dell’acqua provocando danni serissimi; inoltre se la bruci, produce diossina (fa venire il cancro e contamina le donne incinte generando malformazione nei feti). Come minimo occorre cercare il marchio ECF (Elementary Chlorine Free) che indica un minore impatto ambientale

L’alternativa è accettare il colore naturale della carta che è molto chiaro ma non perfettamente bianco. Tipo i libri antichi, per intenderci: è un difetto o una virtù?

Riciclata o di cellulosa vergine?

Si usa cellulosa vergine anche per la carta igienica, affinché il nostro delicato culetto non debba soffrire l’onta della carta riciclata. Bianco è il colore della purezza: mica potete sporcare di maron una carta che è già marroncina! Pazzesco. Ma ora stiamo parlando d’altro: su cosa stampare?
L’industria cartiera ha sparso la voce che la carta ecologica consumerebbe più energia e inquinerebbe di più della carta tradizionale. Sono balle in malafede: Legambiente ha calcolato che per ottenere 1000 kg di carta vergine occorrono 15 alberi, 440.000 litri d’acqua e 7.600 kWh di energia elettrica. Per produrre carta riciclata invece zero alberi, 1.800 litri d’acqua e 2.750 kWh. Il problema serio è evitare lo sbiancamento a base di cloro, cioè scegliere un’estetica che ne valorizzi il colore opaco e granuloso invece di volere la bianchezza “igienica”.

 

9 Riempire tutto lo spazio

Spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.

Calvino, Lezioni Americane, 1
(citato spesso ma mai citato abbastanza)

Se volete che il vostro lettore butti via il vostro volantino dopo averlo visto un nanosecondo, se volete che chi naviga la vostra home page decida di cambiare sito coll’indice della mano destra prima ancora che la maggior parte del suo cervello sappia cosa succede, basta appesantire la pagina di roba inutile.

È uno degli errori più diffusi, i bambini hanno paura del buio; i grandi hanno paura del vuoto.
Troppo spesso il cliente, davanti al nostro sforzo di fare per lui una comunicazione sobria, pulita e senza fronzoli, guarda scettico le nostre fatiche e dice che “sembra un po’ povero”, che ci vuole più colore, qualche foto, un qualcosa che riempia.
O dice che “è un po’ troppo pauperista”, e sta usando tatto: intende contestarci che, per dei pregiudizi ideologici che non condivide, rendiamo la sua pubblicità miserella, sgarrupatina, invece di dargli tutto lo sfarzo che merita.

Per ingombro grafico si intende quanta superficie della carta occupa ciascun elemento (testo, immagine ecc.).
Per aria si intende lo spazio bianco intorno a tali elementi.
In genere più l’ingombro è leggero e pieno di aria, più concetti e segni si stagliano isolati nel bianco della pagina, quindi sono evidenziati e leggibili.
Quando guardate una pagina o una videata, nei pochi decimi di secondo che vi fanno decidete se vi interessa o no, l’ingombro è determinante; possiamo scrivere la cosa più intelligente ma non la leggerà nessuno se l’ingombro è ingolfato, affollato.
Siamo già tutti ingolfati, saturi di input, nessuno ha voglia di altro casino in testa.

Testi più lunghi del necessario

Spesso avviene il paradosso: un testo breve si legge tutto, un testo lungo di solito non viene letto affatto, così si fa prima; lo dimostrano i tempi delle visite a un blog, anche del mio: le pagine brevi hanno tempi di lettura oltre al minuto, quelle lunghe poche decine di secondi. Ciò accade anche se dicono le stesse cose (ad esempio se quella breve è un estratto di quella lunga che per me, autore, è più argomentata ed esaustiva).
E’ giusto che sia così: se il pezzo è breve significa che ho saputo isolare meglio il tema, pensare ad una sintesi chiara, e a questo punto trattarlo con eleganza.
Vorrei scrivere sempre così ma non è facile: per essere brevi occorre un sacco di tempo. Non esiste più la lettura sequenziale (una parola per volta, una riga per volta…) Se no per leggere il giornale servirebbe una settimana.
Davanti una pagina lunga l’occhio campiona con la lettura trasversale, cioè sceglie, più o meno casualmente, alcune frasi o parole; il resto viene ignorato. E’ possibile scrivere apposta per essere compresi anche così, specialmente se chi legge non è in poltrona ma sta camminando con un volantino in mano o è davanti a uno monitor, scomodo per gli occhi e per il corpo.

Fondini

Per rendere il nostro volantino (o quel che è) ancora meno leggibile, mettiamoci un fondino dietro, una foto, una texture. Con un colpo solo allontaneremo il lettore per due motivi: uno, dando l’impressione di un caos indistinto; due, rendendo più faticoso per l’occhio distinguere nitidamente ogni singolo carattere.

Foto inutili

Una foto dice più di mille parole: se volete mostrare che non avete niente da dire, con una foto è facilissimo.
Le foto tirate giù da Internet per “arredare” la pagina, di solito sono quelle che usano tutti, sono dei cliché, degli stereotipi. Se volete dire che siete diversi, che vi distinguete dai prodotti di massa, con quelle foto vi smentite subito e somigliate a quelli che fan finta di essere come voi.
Per comunicare bene, invece, le foto non devono essere considerate un arredo, un ornamento; devono sempre dire qualcosa. E ce ne vuole una sola, non tante, o almeno una più grande e significativa delle altre, per la teoria della primadonna (vedi oltre).

Pacciughi iconografici

Potete arrivare a vette ancora più drastiche di disastro se riempite il vostro spazio di materiale iconografico eterogeneo: una foto, una clipart, un disegnino … tutto insieme. E mi raccomando: sette o otto font diverse nella stessa pagina, infatti meno siete coerenti, più manifesterete di essere disordinati e pasticciati; nessuno vorrà sprecare tempo per leggere quello che c’è scritto sul vostro volantino.

Ci sono anche i casinisti bravi; ma non siete voi.

C’è anche chi riesce a fare dell’ottima comunicazione col pieno e col casino, ma bisogna essere molto bravi e vale in contesti particolari: la scena undergrund, il low fi, varie narrazioni della rabbia metropolitana… E’ un altro modo per trovare il senso nel caos. E’ espressivo e agito, poco progettato perché il senso complessivo è già “incorporato” da passioni, conflitti e speranze; è conflittuale, giovane, impaziente, antagonista, non ha troppa pazienza da dedicare a convincere chi ha schemi mentali diversi. Gioioso o incazzato che sia, il suo pubblico è d’accordo: fonde miscela e condensa le mille tribù parallele del nostro meraviglioso casino umano. La maggior parte di chi legge questo libro, inclusi quelli che ascoltano indie rock, sono solo un pezzettino di quel casino: se cercate una comunicazione progettata per suscitare il cambiamento degli schemi mentali, vi serve piuttosto l’arte della pulizia: allontanare lo sfondo e proteggere dal rumore le cose che volete raccontare.
Ma attenzione, occorre avere qualcosa da dire: se comunicate pulito e chiaro ma esprimete solo cosine noiosine, pedantine, burocratiche, prevedibili, senza anima… avranno ragione i giovani impazienti a dire che siete “pulitini”, considerandolo un insulto.

8 Usare mille scuse per non farsi aiutare

Se vuoi comprendere quello che un altro ti sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva”

Marianella Sclavi 1

Dicevamo nel primo libriccino, a proposito della lingua matrigna del marketing, che siamo tutti competenti nel riceverla, non nell’emetterla.

Come riceventi ad esempio sappiamo ben poco di font, probabilmente non distinguiamo un Bodoni da un Comics; ma se la banca ci mandasse l’estratto conto in Comics tutti inconsciamente capiremmo che c’è qualche problema.
Analogamente non sapremmo progettare il nostro logo ma tuttavia non manderemmo volentieri il nostro bimbo in un nido il cui logo è tutto a spigoli.
Quando siete riceventi, cioè siete fuori dal labirintico processo ideativo, inconsciamente sapete cogliere molte sfumature. Quando diventate emittenti entrate nel labirinto delle mille scelte (quale colore, font, slogan… ogni volta le vostre scelte sono ad un bivio ): c’è la stessa differenza tra guardare una partita e saper giocare quello sport.
Una soluzione c’è: criticarsi vicendevolmente. Chiunque fa meno fatica a vedere la paglia nell’occhio del vicino che la trave nel proprio. È normale.

Cos’è l’error sharing

Oltre a fare il car sharing, l’house sharing e il food sharing, sarebbe il caso di fare anche l’error sharing, scoprirsi reciprocamente le imperfezioni da correggere.
Per non essere permalosi basta essere in un clima win-win e non considerare i propri lavori come se fossero dei figli (vedi oltre, quando ci chiederemo se siamo mammiferi o piante)

Anche in questo caso chi vuole farsi del male ha molte opportunità per facilitare il disastro.

La sindrome del comunicatore permaloso

Quel cafone ce l’ha con me. Mi ha attaccato davanti a tutti perché dice che il volantino sulla raccolta differenziata delle lattine è “incasinato”. Figuriamoci, lui che dice incasinato a me, lui che la moglie lo ha lasciato! e se l’ha lasciato così ci sarà pure un motivo…

La sindrome del comunicatore solitario

Uscite, non distraetemi. Devo stare solo a pensare, se guardate il monitor mentre io lavoro voi giudicate anche me, e io non posso essere giudicato, non lo reggerei, vedrei nei vostri occhi un sacco di critiche (che magari esistono solo nella mia mente). No, rientrate quando ho finito, che il mio lavoro sia un prodotto e non un processo, così giudicate non me ma il volantino.

La sindrome del genio incompreso

La mia Opera mi rappresenta, voi mortali non potete capirne le intime logiche profonde, non potete giudicarmi perché vi limitate alla parte superficiale, ma quando avrò stampato questo geniale volantino sulla raccolta porta a porta delle lattine di alluminio anche voi finalmente capirete con chi avete a che fare.

La sindrome della sveltina

“Scusa, l’ho fatto così perché abbiamo dovuto farlo di corsa…” oppure “Sai, con tutte le cose che abbiamo da fare…”. o ancora “devi mandarlo in stampa dopodomani, come viene, viene…”
C’è perfino la versione orgogliosa: un collega davanti a un raccapricciante banner per fiera di due metri (50.000 visitatori) mi disse: “vabbè, fa un po’ schifo, ma pensa che l’ho fatto in tre ore!”

La sindrome del “Non ho bisogno di nessuno, io”

Ma che vuoi, aiutarmi? A me? Ma occupati del lavoro tuo, che nel tempo che ci metto a spiegarti il come e il perché, ho già finito da solo.

La sindrome del “me l’ha detto il capo”

Chi ha chiesto il tuo parere? Se ha incaricato me significa che è di me che si fida! tu che vuoi?

La sindrome del “fanno tutti così”

Smettila di darti quelle arie da alternativo che vuole fare tutte le cose strane! Se tutti scrivono “conferire” invece di “buttare via” ci sarà un motivo, no? E allora io qui ci scrivo “conferire”, va bene? Non voglio farmi prendere in giro da tutto l’ufficio, non voglio espormi alle critiche del capo.

La sindrome del “se parlo difficile avrò prestigio”

(Guardacaso è molto simile alla precedente).
Se chi è istruito scrive “conferire” invece di “buttare via” è perché adotta un vocabolo più tecnico, più specialistico, quindi genera un’immagine più autorevole. E allora qui ci scrivo “conferire”, va bene? Voglio che tutto l’ufficio sappia come sono colto, spero di avere i complimenti del capo.

La sindrome del “se glielo dico si offende”

Non diciamogli niente: poverino, già è così timido, se per una rara volta si espone a scrivere un volantino gli diciamo che non si capisce niente, chissà come ci rimane male.

Quest’ultima è una sindrome degli interlocutori omertosi, una delle tante: potete provare con tutte le precedenti e accorgervi che c’è sempre la sindrome speculare, quella di chi dovrebbe obbiettare, correggere, migliorare e, invece, tace.

1 è una delle “Sette regole dell’arte di ascoltare” pag 249 di Arte di Ascoltare e Mondi Possibili”
Paravia Bruno Mondadori 2003
Vedi anche www.click.vi.it/sistemieculture/sclavi.html

7 Scrivere sbagliato

Una divertente caccia all’errore sulla redazione di testi l’ha fatta Umberto Eco su una “bustina di minerva” (quella rubrica sull’ultima pagina dell’Espresso che ha fatto epoca), riedita da Bompiani nel 2000
Si trova abbondantemente sul web googlando “come scrivere bene”.
È un elenco di 40 consigli, ad esempio:
8.   Usa meno virgolette possibile: non è “fine”.
14. Solo gli stronzi usano parole volgari.
17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
23. C’è davvero bisogno di fare domande retoriche?

 

Sappiamo già tutti scrivere, insegnaci qualcos’altro di più nuovo! Mi dicono spesso quando presento i corsi ai futuri allievi.
Davvero aver letto libri e scritto temi dalla prima elementare all’Università ha insegnato agli italiani a scrivere? Vediamo.

Corporatese

“La nostra azienda, leader nel campo dei ciripicchi a doppio condensatore, raccoglie la sfida dell’innovazione coniugando la tradizione decennale e la meticolosa ricerca applicata…” neanche la mamma di chi l’ha scritto è capace di arrivare sveglia in fondo alla pagina.
Quante migliaia di alberi vengono abbattuti per stampare milioni di queste frasi illeggibili, di solito su brossure di trenta pagine su patinata lucida da 200 grammi?
Googlate “azienda leader”, leggete qualche sito a caso e decidete se ridere o piangere.

Burocratese

Quando su un bus trovi scritto “obliterare il documento di viaggio” invece di “timbrate il biglietto” significa che quell’Azienda dei Trasporti è classista, razzista e ce l’ha pure coi turisti, coi vecchi e coi bambini. Non sa di esserlo, ma non è una scusante, è un’aggravante.
Davanti a quel testo non sei cittadino neanche se appartieni alla piccolissima percentuale della popolazione che usa il verbo obliterare. Cent’anni fa questo stile serviva a relegare nel senso di inferiorità i ceti illetterati, oggi crea disappartenenza dai beni comuni: ti porta a dimenticare che tu, in quanto cittadino e pagatore di tasse, sei uno dei proprietari di quell’autobus.
Sul burocratese la voce in Wikipedia gioca a sbagliare apposta: Un qualsivoglia enunciato della lingua italiana standard può conferirsi l’attributo caratterizzante di burocratese qualora sia esplicato sottoforma di costrutti obnubilanti e altresì confusi, ovvero forieri di imperfetta comprensione, sia presente un lessico spinto oltre le ragionevoli necessità di trasmissione dei concetti, incorpori elementi sintattico-morfologici contenutisticamente scevri ma nondimeno disagevoli al fine della fluidità comunicativa.
L’amministrazione pubblica da anni sta correggendo il tiro1. Il vero dramma è quando trovate questo linguaggio nel sito di un festival del cinema, di una cooperativa sociale o di una scuola pubblica.

Frasi lunghe

Funzionano poco sulla carta; sul web sono ancora più difficili da leggere. Lo so, tra le virtù d’uno scrittore sufficientemente bravo c’è la sua agilità nel trasportare la mente di chi legge attraverso frasi complesse ed articolate, che somigliano ad un camminare tranquillo in un paesaggio di parole da percorrere riga dopo riga senza eccessi di punteggiatura. Servirebbe un buon lettore (ma siamo tutti sovrastimolati), un buon supporto (il monitor non lo è) e un buon contesto di lettura (pochi di voi leggono queste righe su una poltrona comoda, al silenzio e con tanto tempo a disposizione).
Meglio frasi corte.
Con a capo frequenti.
Così l’occhio si stanca meno.

Ragionamenti senza scaletta condivisibile

Se siete un ciclista bravissimo e dovete spiegare il concetto di bicicletta, parlerete del tipo cambio, della leggerezza in salita, della tenuta in curva di quel tale pneumatico in discesa se piove…
Se non siete un ciclista invece partite dall’essenziale: due ruote, due pedali e un manubrio. Spesso è meglio. Non è facile mettersi nei panni di chi ne sa poco o niente: essere competenti nel proprio campo non significa saperlo divulgare, anzi. Peggio ancora se chi ascolta ha dei pregiudizi, cosa che capita spesso a chi parla di mestieri alternativi. Per un bambino, magari, la cosa più importante di una bici è il campanello che fa drin drin, il ciclista esperto è capace di accorgersene? Questo è un problema di gerarchia delle informazioni, cioè di sequenza e di importanza reciproca tra le cose da dire.

Troppe parole astratte

La tradizione, la competenza, l’efficienza, l’amore per l’ambiente… sarebbero cose molto importanti, ma se le leggete su un’etichetta o su un volantino… sono parole astratte e quindi dicono pochissimo.
Se producete una formaggella di capra davvero genuina, non sta a voi dire “genuinità”. L’astrazione la deve generare il ricevente nella propria testa, basandosi sulle vostre affermazioni concrete e solide: se voi sapete comunicare bene lui, nella propria mente, arriva alla concettualizzazione astratta di “genuinità”. Per aiutarlo in questo processo, usate la genuinità non verbale: carta riciclata, contenitore compatibile, etichetta chiara, canali diretti. E, magari, aiuterebbe parecchio un assaggino concreto.

Dire che il mondo ha bisogno d’amore

Secondo Salvador Dalì, il primo uomo ad aver paragonato la donna ad una rosa fu un genio, il secondo un idiota. Secondo Gérard de Nerval, cent’anni prima, il primo uomo ad aver paragonato la donna ad una rosa fu un genio, il secondo un idiota. Quindi Dalì, che ripeteva una cosa già detta, era un idiota? Non lo so, a me piace paragonare la donna che amo ad un fiore, la metafora calza benissimo e non mi sento affatto idiota, anzi al solo pensiero sento l’amore che mi scalda. Il problema viene quando passiamo dalla comunicazione spontanea a quella progettata.
Un bambino che corre dalla mamma e le dice “sei la mamma più bella del mondo” è spontaneo e tenerissimo; Lo stesso bambino in una pubblicità che dice “sei la mamma più bella del mondo se compri questa merendina” inflaziona le parole come la falsa moneta.
Ad esempio, io sono convinto di questa affermazione:

“Se ci fosse più amore tra gli uomini, il mondo andrebbe meglio e finirebbero tutte le guerre”

Forse sbaglio teoria? no, è una verità profondissima e credo che tutti noi la pensiamo; ma a dirla sembra una stupidaggine, una banalità intollerabile. Infantile, ingenua. Perché?
Non c’è informazione se non c’è un po’ di imprevisto, se in quello che ascolto non c’è un po’ di differenza rispetto a ciò che mi aspetto di udire. Se sento una differenza interessante la mia mente curiosa ha un piccolo cambiamento. L’informazione è una differenza che genera differenza, diceva Bateson2.
Quindi mi spiace, ma appena prendi la penna in mano, sei condannato all’originalità.

Altri errori per scarsa astinenza

Vedendo un gerundio in una frase, riconoscendolo e reputando che non sia uno dei rarissimi casi in cui stia servendo, uccidetelo, sostituendolo con un normalissimo presente.

L’abusare dell’infinito sostantivato equivale al non sapere che si suscita il fumare del cervello altrui.

I punti esclamativi! dio mio! quasi sempre pensate che aumentino la forza e l’enfasi, invece nooo! Non è vero! Di solito la riducono! Specialmente se sono tre o quattro!!!! Quasi? No, sempre! Ah!!!!

Sciami di “virgolette”, volano come “zanzare” ove non “servono”; vanno “abbattuti” con dosi “”generose”” di Flint. Vale anche per i titoli dei giornali di provincia, che ci tengono ad esempio a mettere le virgolette alla “pantera” della polizia, temendo che voi intendiate che i poliziotti se la portino al guinzaglio. C’entra colla fiducia che lo “scrittore” ripone nell’intelligenza del lettore.

Il maiuscoletto significa URLARE. Ogni tanto nella vita capita, anche se di solito è controproducente. Decidere di URLARE è una scelta, siete maggiorenni e liberi, ma per instaurare una relazione, di solito, è la scelta sbagliata.

Tutte le tribù hanno il loro socioletto, anche la vostra: parole e frasi che all’interno del vostro mondo sono pratiche e veloci, ma che all’esterno del vostro sistema sono in marziano. Voi venite considerati competenti e colti se sapete usarle, quindi vi piacciono; ma attenti, la rieducazione del linguaggio riguarda anche voi, chiunque voi siate. Che fatica, ad esempio, spiegare a un militante sociale che la definizione “realtà del territorio che governano dal basso” per l’associazione di immigrate ghanesi sono parole al vento.

1Cercate sul web le “30 regole per scrivere testi amministrativi chiari” di Cortellazzo e Pellegrino

2Bateson: “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi

6 Come pessimizzare i canali

Nel terzo libro parleremo di come due media apparentemente deboli si possano potenziare reciprocamente in quella matematica per cui 1+1=11 e 1+1+1=111

Programmare le comunicazioni separatamente

Stiamo parlando della parte grafica e testuale per i diversi media: principalmente stampati e internet, ma anche stand fieristici, vetrine, inserzioni, segnaletica. L’errore più frequente e dispersivo è non programmare tutto insieme. Pianificare una cosa per volta infatti significa moltiplicare le spese, le complicazioni e soprattutto fare più fatica a mettere in sinergia le diverse forme di comunicazione.

Non fare, come prima cosa, un sito studiato bene

Il sito (spesso, non sempre) è la prima cosa da realizzare nell’immagine coordinata, cronologicamente e strategicamente.

Cronologicamente perché pianificare per il sito significa anche fare le scelte per la carta: i colori, i caratteri, le frasi più efficaci, lo slogan e il cosiddetto pay-off (lo sloganino che chiude la comunicazione). Fare un sito genera semilavorati grafici e testuali per gli altri lavori. Graficamente, di solito, quello che va bene sul sito funziona anche sulla carta, ma non viceversa.
Strategicamente perché se partite dal sito, tutti gli altri output (dal biglietto da visita, al volantino, eccetera) saranno legati a quel www detto, letto o linkato. Chi riceve il volantino, ascolta di voi alla radio, sente una opinione, legge un blog… sempre più spesso troverà più pratico guardare il vostro sito prima di prendere l’auto e venire personalmente al vostro negozio, studio, ufficio, fattoria o officina.

Avere solo un sito vetrina

La storia di Internet è breve ma intensa, quello che andava pochi anni fa ora è obsoleto.
Un sito vetrina, con l’intro animata in Flash e le news che scorrono, pochi anni fa sembrava una cosa stupefacente, oggi è giurassico. Oggi una vetrina serve a poco; meglio un sito-salotto, dove la gente chiacchiera.

Un esempio elementare in cui 1 + 1 fa 11

Se invece non volete sprecare soldi, tempo e impronta ecologica, ecco un esempio di crossmedialità molto semplice ma concreto e attuabile da chiunque.

  1. cominciate dal sito; che abbia un nome facile da ricordare. Costruitelo con frammenti brevi ciascuno dei quali sia di per sé interessante. Quando è abbastanza chiaro, convincente e pulito (non sarà mai 100% perfetto, il sito è un processo) passate allo step 2
  2. scegliete canali agevoli ed economici per voi (se avete molti indirizzi usate quelli, se nella vostra area c’è una radio che può parlarne comprate qualche inserzione, se potete parlare ad una certa categoria attraverso un bollettino usate quello… se siete una rete di contadini che spedisce al nord 1500 casse di arance, metteteci dentro un volantino…) e invitate ad andare sul sito per un motivo preciso (un’offerta, una festa…). Controllate gli accessi e raccogliete le mail di chi è interessato.

5 Come rovinarsi la reputazione

Siete buoni, sensibili, etici, fate bene all’ambiente, rispettate il cliente: così diventa più difficile lo sport di sputtanarsi da soli; nonostante questo, molti di voi ci riescono brillantemente, ecco come.

Confondere la reputazione con l’immagine.

La reputazione si riceve; l’immagine si offre. La reputazione si ha, l’immagine si mostra.
L’immagine è quello che ti ricordi quando hai dimenticato tutto il resto, dicono da 50 anni i marketer delle grandi aziende: hanno ragione, anche se per loro questa regola vuol dire: investi tutto sull’immagine, mentre per noi invece significa: non far dimenticare tutto il resto.
Da quando c’è internet, l’immagine diventa meno importante e la reputazione molto più vitale.
Per noi “piccoli” la cura dell’immagine è appena una messa in ordine: è come lavarsi la faccia o indossare degli abiti puliti. Vogliamo essere noi stessi, appena più chiari e ordinati per evitare i pregiudizi del primo contatto. Altra cosa è l’identità artificiale del marketing.
Comunque, che sia sincera o cosmetica, l’immagine è il modo con cui ci presentiamo.
La reputazione invece si riceve, è un’attribuzione che ci viene data dagli altri e che ci si guadagna sul campo. Molte pagine di questi libriccini si occupano di immagine e dell’identità espressa, perché è il punto di partenza, perché se sbagli quello, va peggio tutto il resto; ma la reputazione sui tempi lunghi è molto, molto più importante.

Tenersi riservata la responsabilità sociale

Se hai un protocollo di CSR e ogni anno pubblichi il tuo bilancio sociale, offri al tuo pubblico quello che serve per capire chi sei, cosa fai, come verificare le tue affermazioni, quali reali problemi vuoi affrontare per migliorare e come.
Se non ce l’hai di solito è già un errore. Se ce l’hai e non lo rendi visibile anche.  Se non lo si può vedere ci possono essere solo due spiegazioni: o sono balle e hai qualcosa da nascondere, oppure non sei organizzato per raccontare chi sei e cosa fai. Di solito è vera la seconda ipotesi, ma la gente è molto più propensa a supporre la prima.

Raccontarsi in falsetto

Un contadino che dice “questo campo è in conversione, lo coltivo biologicamente da tre anni ma ancora non può essere certificato, però senti che profumo queste zucchine” sta raccontando una storia, ti porta ad essere suo alleato in un processo evolutivo. Se invece ti dice: “sì, sono biologiche” fa prima, ma ti sta ingannando e per giunta vanifica i processi di certificazione e rischia di pregiudicare l’intera categoria, senza alcun vantaggio reale.
Spesso capita anche in buona fede; si confondono gli obiettivi coi risultati, si dimenticano dei difettucci, si lasciano che alcune ambiguità siano fraintese attribuendoci un piccolo vantaggio di immagine che non meritiamo…
Spesso ce ne rendiamo conto passando dall’orale allo scritto: quanti clienti (bravissime persone) nelle interviste iniziali fanno certe affermazioni, io le scrivo, loro le leggono e dicono “ma questo non è mica vero”… Occorre un training mentale per abituarsi a distinguere i desideri dai fatti e dire solo cose oggettive e verificabili, se no puoi essere bravo, bello e buono ma rischi una cattiva reputazione.
In genere si è “bugiardini” per pigrizia, per approssimazione, per l’emergenza di vendere qualcosa quando gli affari stentano; non va bene perché così ci si confonde coi bugiardi veri, quelli che mentono sapendo di mentire e vogliono manipolare la scelta d’acquisto con informazioni fuorvianti.

Sovrapromettere

La promessa ingenua è un classico errore delle piccole start-up; spesso non serve a calmare il cliente, ma a ingannare noi stessi. Per costringerci all’auto-sfruttamento promettiamo una scadenza che faticheremo ad onorare così, diciamo a noi stessi, saremo costretti a farcela. Quando ragioniamo così puntualmente non ce la facciamo, ad esempio perché quel weekend lavoriamo, sì, ma per qualcun altro: l’auto-sfruttamento, quando supera la diga, allaga tutta l’agenda e non si riesce più a pianificare nulla. Deve essere una condizione straordinaria, non frequente; e non solo perché ci roviniamo la salute e le relazioni (questo è così ovvio che magari ci sentiamo più eroici) ma anche perché serve a mantenere l’adattabilità: un ottimo elastico se resta sempre teso alla massima estensione, è solo uno spago debole. Non ci sono scuse, l’attività ci rimette. Se non ci credete googlate la parola “workaholic”

Prendersela

Nei social network le critiche giuste ci saranno sempre, non siamo perfetti; usiamole per correggerci e per mostrare a tutti che sappiamo affrontare i problemi; trasformiamole in dialogo, testimonianza; porgiamo le scuse franche quando è giusto e spieghiamo il nostro operato schiettamente. Ci saranno anche le critiche sbagliate: portate pazienza, porgete argomenti, niente censure se non c’è un’evidente ripetizione in malafede da parte di un singolo.
La critica diventa micidiale quando non riceve risposta, giusta o ingiusta che sia.

Non aggiornare il sito e il blog

Parlare del proprio lavoro su un blog è un gesto di amore per quello che si fa, un modo per condividere le proprie scelte di vita. Chi vuole mostrare che questo amore non ce l’ha, basta che molli lì il sito e il blog, lasciarli senza vita con notizie vecchie di mesi.
Infatti è molto importante che il blog sia vivo, aggiornato e che il sito abbia delle news recenti.
Se uno che vi cerca va sul tuo sito e vede che non è successo nulla da mesi, pensa che l’azienda sia defunta, ed ha ragione: da quel momento per lui essa sparisce.
Ti manca l’abilità? Lasciati istruire da qualcuno più giovane: essendo nato dopo, evolutivamente è più vecchio.
Ti manca la motivazione? La sera spegni la TV e frequenta i blog degli altri, trova cose che ti intrigano, interagisci… vedrai che la voglia ti viene; se invece languisci su Facebook a discutere col tizio che conosci appena del suo cagnolino di cui non ti frega niente, dopo due settimane ti stuferai e ti sembrerà poco importante anche aggiornare il tuo blog.

4 Come sbagliare identità

Esercizio: siete su una panchina. Guardate la gente che passa per strada: un giovane tatuato, una signora in pelliccia, la quarantenne griffata, la sua coetanea che cammina timida, due africani in scarpe da tennis che camminano e ridono…
Potete giocare a indovinare: chi legge molti libri, chi tradisce il partner, chi è capace di montarsi da solo un mobile, chi mangia vegetariano, chi evade le tasse, chi potrebbe rubarvi il portafoglio…
Il risultato è strano, un mix di intuizioni e pregiudizi: di intelligenza raffinatissima e stupidi schemi mentali precostituiti (che anestetizzano l’intuizione e l’empatia); ma finché è un gioco mentale, tranquilli: nessuno saprà le vostre fantasie, il disagio è solo in chi si sente osservato.

Travestirsi non basta

Si può tentare di governare l’impressione che ciascuno fa agli altri, vestendosi, pettinandosi, parlando in un certo modo. Ciò che svela abbastanza bene se siamo sinceri o se stiamo travestendoci è la coerenza tra queste cose.
Non è solo un problema di coerenza tra la camicia e la cravatta (dettagli che, per chi vuol mostrarsi elegantone, hanno tuttavia una certa importanza) ma anche di coerenza tra cento espressioni meno simulabili: gesti, modi di incrociare lo sguardo, velocità del passo, tono di voce, tensione nella stretta di mano… insomma modi di essere in relazione con gli altri e in equilibrio interno.

La stessa cosa vale per una organizzazione umana: può “vestirsi” con un marchio, delle font, dei colori, un certo stile del sito, un certo slogan… ma c’è una differenza enorme tra il travestimento e la personalità profonda; e se si sta attenti alla coerenza, di solito è facile svelare l’inganno.

Il marketing aiuta le grandi aziende a non rivelare queste incoerenze studiando meticolosamente l’ “immagine coordinata”, ma da quando c’è internet è più difficile.
Finché apparivano solo sulla TV e sulla carta stampata, bastava un gruppo di persone ben pagate con un certo gusto e abbastanza cultura: grafici, marketer, copy… erano in grado di fare all’azienda l’equivalente di chi vi suggerisce quale accostamento è giusto tra camicia e cravatta. Era un lavoro immensamente più complesso (i “vestiti” che un’azienda indossa contemporaneamente sono centinaia e gli osservatori sono decine di milioni) ma sostanzialmente era simile a chi accompagna un daltonico a comprarsi dei vestiti.
Oggi con internet entrano in gioco le relazioni e gli stili di conversazione, che svelano il tono (più o meno sincero) che si legge tra le righe. Certo, tutto si può simulare, ma ora è molto più difficile e occorre cambiare rapidissimamente.
Di solito, più è grande e complessa un’azienda, più sono nevrotici i suoi scambi coll’interno e coll’esterno.
Questo fenomeno potrebbe essere un formidabile vantaggio per l’impresa etica: è come se un bimbo di 5 anni potesse fare una gara con Schumacker su tricicli da bambini. Ma se volete farvi del male, sbagliare identità è un ottimo modo con cui voi, che siete leali e trasparenti, potete apparire sospetti ed ambigui.

Avere un’immagine che non somiglia alla sostanza

Come per una persona, occorre conoscere se stessi. Se la vostra associazione, impresa, ente… ha delle potenzialità, esse formano una personalità simile a quella dell’individuo, ossia la capacità di previsione, il ragionamento davanti a quello che succede, l’esperienza.
Ogni strada è una storia, devi saperla raccontare. Se la tua narrazione è confusa, disordinata o ingolfata, significa che per gli altri sei tu ad essere confusionario, male organizzato e destinato continuamente a inciampare nei dettagli.

Confondere l’identità con la relazione

Non solo chi abusa di finzione e cosmesi confonde l’essere col sembrare; anche chi si presenta sciatto e disordinato perché tanto “l’apparenza non conta”: quella non è apparenza, è sostanza.
Se non siamo coperti di cosmetici, se non ci travestiamo, allora siamo quel che sembriamo.
Il primo contatto tra due mammiferi è di accoglimento o respingimento: è un codice ancestrale che noi umani abbiamo complicato e sofisticato, ma all’inizio di qualsiasi comunicazione c’è “ti accolgo” o “ti respingo”. Puoi essere selvaggio, anticonformista, trasgressivo, ma non puoi mai essere respingente, repellente o infastidito da chi ti cerca.
Se sei un contadino puoi permetterti di lavorare colle unghie sporche; se sei un cameriere, no: le unghie pulite non sono un travestimento, come per te avere un’immagine chiara, coerente e pulita.

Manifestare un’identità contorta

… o complicata, o contradditoria.

Quasi sempre la comunicazione fai-da-te ha questo problema. La percezione dell’identità, da parte di chiunque in quasi tutte le situazioni, segue la logica aristotelica per cui se A = A allora non è possibile che A sia diverso da A.
Ovvio, in realtà (sia come persone che come sistemi di persone) la nostra identità è più complessa, siamo un po’ A e contemporaneamente un po’ non A, perché col tempo cambiamo, perché abitando anche il virtuale possiamo avere molteplici identità psicologiche, perché nell’inconscio di una persona (e anche di un’organizzazione) abitano personalità diverse che emergono a seconda dei ruoli, delle situazioni, delle paure e delle pulsioni.
Nonostante questa densa dimensione complessa, la prima forma di identità percepita dagli altri è quella semplice, ovvia, manifesta; è maledettamente superficiale e si ferma sulla prima impressione.
Siamo tridimensionali, abbiamo uno spessore umano, ma ci guardiamo reciprocamente in modo bidimensionale. Certo, in questo siamo tutti stupidi, banali; è un sacrificio che la nostra mente fa per adeguarsi al bombardamento di segnali: non possiamo essere analitici ed empatici con tutti, soccomberemmo. Quanto più la società è rumorosa e dispersiva, più siamo portati a giudicare dalla prima impressione: se sei un cameriere con le unghie sporche, è un ristorante sporco: A = A, non voglio saper nulla sul perché e sul percome ti si sono sporcate, io qui non ci rimetto piede.
Ora considerate la pulizia del vostro biglietto da visita o della vostra home page come quelle unghie.

Anche lo smarketing parla di immagine coordinata?

Questa è una delle poche “armi del nemico” che il disertore fa bene a mettere nello zaino. Alcuni aspetti leggeri ed efficienti delle tecniche di IC sono molto utili anche per il pesce piccolo, anzi spesso permettono la sua sopravvivenza senza essere mangiato dai pescicani.
L’ossessione del controllo meticoloso non è tra gli aspetti che ci interessano, anzi tendiamo a scoordinarla un po’; quello che conta è la coerenza dello stile.

Ne riparliamo, la incontreremo di nuovo tra le “parole cacciavite”. Qui ci basti dire che l’I.C. (corporate image) è uno dei baluardi del marketing tradizionale proprio perché permette di essere riconosciuti e ricordati.

L’immagine è sempre una rappresentazione

Quanto più distanti tra loro sono identità e immagine, maggiore è la falsificazione, ma attenti: non è vero il viceversa. Se li avvicini non potranno mai coincidere, anche se rappresenti l’azienda più sincera del Pianeta. Il significante non è il significato, la mappa non è il territorio e quindi voi per quanto leali e trasparenti, non sarete mai esattamente la vostra immagine.
Ma cerchiamo che almeno somiglino e che non siano troppo confondibili con altre immagini.

3 Come sbagliare logo

Per logo il linguaggio popolare intende qualcosa che è un po’ logo, un po’ marchio e un po’ brand, un po’ la marca com’era una volta, un po’ stemma feudale.
Per molti è solo una una bandierina da mettere su fiere e cartelloni per dire “io son stato qui”: territorialità psicologica.

Inizio della storia tipica

Voi che state leggendo queste pagine, probabilmente siete nati senza santi in paradiso, con un capitale iniziale che consiste più o meno in un rosso in banca e tanto olio di gomito.
Siccome navighiamo fin da bambini nel mondo dei brand, la prima cosa che uno pensa è: “ qui ci vuole un logo”.
Ma di solito ci si pensa poco, quando ci si mette in proprio si hanno altre urgenze: “ho da pensare a cose vere, concrete, mica all’immagine!” Così comincia il divorzio tra essere ed apparire.
Con premura e distrazione, qualcuno si rivolge al figlio dell’amico che studia arte, qualcun altro al perenne ventenne che sa usare Photoshop e quindi dice “io sono un grafico”; qualcuno chiede il preventivo a un’ agenzia, e quando lo riceve impallidisce: “come, tutti questi soldi per un disegnetto?” e ripiega su una delle precedenti due ipotesi. Ne sorte uno pseudo-logo che di solito ha almeno uno di questi difetti
– pieno di roba, arzigogolato, come uno stemma medioevale
– con caratteri illeggibili da lontano, a volte anche da vicino
– con scritte che impastano se stampate in piccolo
– con colori che spariscono davanti a certi sfondi
– senza nessuna relazione con la personalità che vorrebbe simbolizzare
– esteticamente brutto, inelegante, sproporzionato.

Voi non siete la Nike

Non potete ragionare come la Nike: quel baffetto (lo Swoosh) senza anni di pubblicità milionaria alle spalle sarebbe simile a tanti tag dei graffitari sui muri.
Funziona per logica parassitaria. Sapete già che due scarpe da 100 euro ne costano 7 di mano d’opera, materia prima, energia e confezione, incluso il lavoro del personale commerciale in occidente. Gli altri 93 sono tutti di marketing e plusvalenze.
L’ho detto ad un giovane consumatore appassionato di quel marchio che mi ha guardato come per dire: è normale! le parole testuali sono state “ma secondo te un crocifisso sono due assicelle incrociate?”
Uno dei nostri clienti è un artigiano spagnolo che ne fa a mano poche migliaia di paia all’anno: scarpe biologiche, ecologiche, anallergiche, fatte in famiglia. Un suo modello è stato copiato da una marca famosa.
Lo cito perché è l’inverso speculare della Nike. Il rapporto di 7 a 93 all’incirca per lui è invertito. Se ragionasse come la Nike dovrebbe vendere le sue scarpe a prezzi stellari. Invece può competere a prezzo analogo con qualità eccellente e impatto vicino allo zero perché riduce la filiera. Gli abbiamo studiato un logo che fosse:
semplice, essenziale, memorabile e distinguibile come quello della Nike,
– tuttavia riconoscibile e capace di vivere senza nessun altro branding che il passaparola.

Come continua la storia

Riprendiamo la storia dell’azienda che, nel cominciare, aveva scelto un logo sbagliato. Passa qualche anno e si rende conto che quel logo dozzinale fa sembrare dozzinale anche il prodotto. Che fare?

1. Cambiare logo
Chi cambia logo? A volte è il faccendiere che ne ha combinata una grossa e per stare sul mercato deve rifarsi una faccia nuova e pulita. O la marca sputtanata dai social network per qualche colpa sociale o ambientale. Il vostro caso è esattamente l’opposto. Cambiare logo è cambiare faccia, chi ti conosceva non ti riconoscerà; quindi, almeno per i primi mesi, peggiorerai la tua rete di fiducia e di reputazione.

2. Trascinarsi dietro il logo disutile
quella che dovrebbe essere una forza diventa un ostacolo. Il vostro cliente ragiona, come abbiamo già visto, in modo elementare: A = A. Quindi se il tuo logo è approssimativo e dilettantesco, anche tu appari approssimativo e dilettantesco.

3. tentare una migrazione il più morbida possibile tra vecchio e nuovo.
É una soluzione graduale, la può fare soltanto un buon grafico professionista e a volte costa più di un logo nuovo; l’esito spesso è abbastanza buono ma non è facile garantirlo sempre. Capita spesso di lavorare parecchio e tuttavia avere il cliente insoddisfatto; brutta situazione, il grafico sgobba e il cliente ha sempre da ridire, alla fine ci rimettono entrambi in soldi, amicizia e nervi.

Rewind: come avrebbe dovuto cominciare la storia

  1. Meglio nessun logo che un logo sbagliato. Per cominciare sarebbe bastato un logotipo tipografico: il nome (deve essere un bel nome) scritto con una font scelta bene, con il consiglio di professionista.
    A quel punto, per esporlo in insegne fiere e cartelloni, la cosa più importante è che non ci sia rumore intorno (fondini, altre immagini, ornamenti…)
  2. Dopo qualche anno, una volta assestati, alla prima revisione dell’IC (vedi prossima pagina), si è maturi per aggiunge, se serve, anche un bel loghetto. Ma spesso non serve.

2 Come sbagliare dominio

Quel qualcosa che sta dopo il www si chiama dominio o URL. Quasi sempre il tuo cliente ti verrà a trovare sul web per ridurre le scelte prima di spendere tempo, soldi e chilometri per incontrarti nel mondo reale. Ti deve trovare chiaro, ti deve trovare sincero, ma soprattutto ti deve trovare.
Se vuoi evitare che ti trovi, se vuoi perdere il cliente ancor prima di conoscerlo, ecco i sistemi più frequenti e collaudati.

Credere che i link bastino

Guardate i siti delle persone che conoscete: impazzano nomi lunghi chilometri, pieni di slash, di caratteri non italiani, con termini inglesi di cui non ci si ricorda bene la grafia, con lineette che non sai mai se sono _ o -. Guardate ora i siti nei vostri “preferiti”: l’indirizzo delle loro home page sono quasi sempre molto più facili da ricordare.
Qualcuno pensa che avere un URL semplice abbia una importanza relativa: “tanto chi arriva al nostro sito clicca su un link, che sia corto o lungo non è poi così importante”, credono. Confondono la causa con l’effetto.

Se stiamo facendo una politica di passaparola e crossmedialità, l’URL deve essere il più possibile breve, memorabile e riscrivibile. Cioè deve poter essere detto a voce, ad esempio a un amico chiaccherando, e lui magari se lo appunta su un foglietto e non vogliamo che sbagli una sola lettera.
Oppure deve essere detto alla radio; radio + internet è la classica combinazione in cui 1 + 1 = 11. Questo è un concetto che sviluppo oltre nel capitolo sulla crossmedialità, per ora annotate che se dico una URL per radio a uno che l’ascolta in auto, se la deve ricordare.
Quindi per non sbagliare scegliete un url “orale”, che si possa dire a voce.

Avere un’URL difficile da ricordare.

Per riassumere: se vuoi che il tuo sito sia un disastro e che non riesca a digitarne il nome neanche la tua mamma che ti vuole tanto bene, devi fare questi sbagli:

– sceglilo lungo e complicato: nel digitarlo aumenta la probabilità d’errore;

– evita le parole di uso comune: melanzana, chitarra, tiglio si potrebbero ricordare; per assicurarsi un po’ di guai scegli lacucurbitacea, arciliutomoderno o platyphillos

– inserisci almeno un trattino. Immaginati al telefono mentre detti il sito a un cliente e devi dire “trattino meno”; lui ti chiederà “come?” e tu spiegherai “il trattino quello nel mezzo, non l’underscore”… eccetera: per chi vi guarda è un pezzo comico;

– mettici due o tre caratteri stranieri. Specialmente una “j” o una “y” che per noi italiani suona come la “i” e confonde la memoria sonora della parola; oppure mettici una bella parola in inglese, che “fa tanto internazionale”: non miele ma honey così metà degli italiani non sapranno se scrivere oney, honei, ohnej…

– se ci metti il tuo nome, mi raccomando, prima il cognome e poi il nome, come al militare. Così oltre a guadagnarci quella bella immagine fresca e informale, è praticamente certo che tutti scriveranno prima il nome e poi il cognome.

Scegliere il nome molto diverso dall’URL del sito.

Un altro modo per farsi del male è dare l’idea che la tua azienda, sul sito, sia un’altra cosa da quella nel mondo reale. Uno va sul vostro sito, lo vede e dice “ho sbagliato, questo non può essere lui”.
Per farsi male in questo modo occorre fare diversi errori di colore, font, linguaggio, insomma di Immagine Coordinata. Se volete c’è un errore a monte che rende inutili i successivi: un nome decisamente diverso dal vostro. È come avere un’enoteca e sul web chiamarsi autolavaggio.

Non comprare i sinonimi

Voi siete buoni e leali, ma il mondo intorno a voi è cattivo e ingrato, quindi fidiamoci del prossimo, ma non fino al punto di aprire la porta del pollaio alla volpe. Se coltivate melanzane bio e le vendete sott’olio, magari cominciate ad avere qualche recensione, molti accessi al sito, mettiamo che diventiate presidio Slow Food e che non vogliate crescere oltre un certo limite, perché la vostra produzione è di qualità, quindi per forza di cose è limitata.
Attenti che oltre a www.melanzanabio.it abbiate registrato anche il .com, il .net, l’ .org eccetera. Altrimenti è matematicamente certo che qualche importatore di melanzane sottolio cinesi vi imiti con un sito simile.

Imitare l’url di un concorrente famoso.

Non ci crederete, ma c’è qualcuno che fa anche questa.
Ovvio che per il melanzanaro importatore cinese, possa funzionare. Ma ci sono dei webmaster che lo suggeriscono ad imprenditori della decrescita invitandoli a simulare il nome di un mainstream. È un errore da senso di inferiorità che aumenta l’inferiorità, perché ovviamente manda i clienti alternativi della vostra nicchia sul marchio mainstream; sempre, mai viceversa.

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