Libri sullo smarketing

I dinosauri si sono estinti, le formiche no.

Author: Marco Geronimi Stoll (page 4 of 6)

Far funzionare uno stand

usato per
Corso per espositori a Fà la Cosa Giusta

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Slides su PDF

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http://www.geronimi.it/wordpress/wp-content/uploads/flcg.pdf

Se vi interessa, c’è anche questo articolino che lo spiega
http://www.geronimi.it/2011/02/20/istruzioni-per-far-funzionare-uno-stand/

11 Farsi fregare sulle inserzioni

Questo è l’undicesimo errore, diffusissimo; arriva per telefono, spesso suona il campanello senza appuntamento.

Per carità, non è che siano persone cattive, come tanti altri girano per le imprese e cercano di vendere il loro prodotto. Solo che non vendono macchinette per il caffè né scaffalature metalliche, loro vendono spazi pubblicitari.
Se vuoi buttare via un po’ di soldi inutilmente loro ti aiuteranno con solerzia. Non immagini quanti soldi vengano sciupati così ogni anno; o forse lo immagini benissimo perchè ci sei cascato anche tu.

Ma la spesa è bassissima! ti dicono. Sono dei venditori, è ovvio che sanno argomentare.
Tu ti lasci convincere e compri qualche “spazio di visibilità”: un’inserzione sul giornalino di provincia, un loghino in mezzo a tanti sul depliant della sagra, una diapositiva nella TV locale a mezzanotte che “non ci crederà, ma la vedono 120.000 persone ogni sera”; o forse erano 12.000, o magari 1.200, chissà perchè qui i numeri non funzionano come i KW di un motore o i chili di un alimento.
Tu paghi poco, una cifra con due o tre zeri, ma quasi sempre vale uno zero solo. E poi cosa significa “poco”? se sei piccolo, quelle “poche centinaia di euro” sono comunque un’occasione mancata per usarle bene.

Di solito il problema di queste inserzioni è che sono illeggibili, brutte, piene di parole astratte, ingolfate, con immagini gia viste… insomma molti dei 10 errori di cui abbiamo parlato. Ma a monte c’è un’altra questione: servono?

Come controlli l’effetto?
Se ti vendono una macchinetta che fa il caffè cattivo te ne accorgi subito, telefoni al venditore e te la fai cambiare… figuriamo se ti vendono una scaffalatura metallica che si piega appena la monti: “lei se lo sogna il saldo della fattura, venga subito a riprendersi la  merce!”  Ma come puoi capire se una piccola inserzione funziona o no?
Se funzionasse molto bene te ne accorgeresti subito: molti ti direbbero“ah, ti ho visto lì”, “oh, ti ho sentito là” e percepiresti un aumento delle vendite. A parte casi particolarissimi, non ci sperare.
Se non succede nulla,  tu non saprai mai se funziona zero, poco, cosìcosì…  o se  magari va benino ma non te ne accorgi.
E poi in fondo hai speso “pochissimo”, cosa pretendi?

Invece occorre sempre sapere se i soldi che hai speso ti tornano indietro. Il famoso ROI, il “retourn of investiments” che dovrebbe essere alla base del marketing commerciale. Sui piccoli numeri è molto difficile da verificare, se non passi da Analytics e da strumenti social.

Ma occorre comunque farsi un’idea, quindi facciamo tre ragionamenti semplici.

Il primo è chiedersi: quanto valore aggiunto c’è?  Intanto il venditore deve pagarci sé stesso, che siano i 5.000 euro per la bellona che parla di te sulla TV locale o i 100 euro per mettere il tuo loghino sullo striscione della partita dei bambini all’oratorio. Se uno investe molto tempo per venderti una cosa economica, comunque, la percentuale deve essere tale da valerne la pena. Poveraccio, immaginiamo tutti che alla fine del mese non si troverà ricco, perchè di clienti ne raccatta certamente pochi, ma comunque non è lì che tu volevi mettere i tuoi soldi.

Il secondo ragionamento è più importante: queste piccole inserzioni sono generaliste. Tu, se sei piccolo e particolare, stai cercando nicchie che ti somigliano. Faresti meglio a chiederti dove tu incontri le persone che sono interessate a quello che fai: su quali riviste, trasmissioni di radio locali, blog, piccoli eventi…
Magari le 50 persone apparentemente minoritarie che guardano un film d’essai sono tutte “buone” per il tuo prodotto speciale e capaci di passaparola, quindi valgono molto di più di 5000 adolescenti in discoteca che del tuo prodotto se ne infischiano altamente.
Quali sono i canali giusti devi scoprirlo tu, devi fartelo raccontare dai clienti; devi conoscere lo specifico del tuo piccolo mondo, e anche semplicemente farti dire dai clienti “come ha saputo di noi?”
Il venditore di pubblicità di quelle cose non sa niente. Quindi, non farti distrarre dalle sue proposte e piuttosto individua le poche testate e i pochi eventi che davvero ti servono a incontrare chi ti somiglia.

Il terzo è: a cosa servono le inserzioni? in un meccanismo elementare di marketing tradizionale tu paghi la pubblicità, ne carichi il prezzo sul costo del prodotto, la gente compra il tuo prodotto e ti ripaga anche della pubblicità. Se tralasciamo per un momento l’aspetto etico, il meccanismo non fa una grinza se non per un dettaglio: è esattamente il meccanismo con cui i pesci grossi mangiano quelli piccoli come te. È quello per cui devi vedertela con le multinazionale e la Grande Distribuzione che competono con te a tre livelli: il prezzo stracciato, la reperibilità dei prodotti a portata di carrello e l’immaginario condizionato dalle favole della pubblicità. Cambia strada, non ne vale la pena.
Pretendere di competere nei piccoli numeri in un meccanismo di grandi numeri è assurdo, e questo vale anche per la pubblicità: il tuo spot sulla TV locale costa un millesimo, ma rende in millionesimo.

Morale

Coi tuoi soldi finanzi dei media. Paghi giornalisti, tipografi, speaker.
Così come chiediamo coerenza a un contadino o a un artigiano, altrettanto tu puoi (anzi devi)  chiederla al mediun che usi per promuoverti.
Se scegli mezzi etici, sensibili, colti che rinunciano al business fine a sé stesso, probabilmente troverai costi che apparentemente sono maggiori in proporzione al numero (di lettori, ascoltatori, visitatori…), ma in realtà sono costi  ottimi se si pensa a un poubblico moltiplicatore di passaparola. Inoltre la reputazione di chi è disinteressato è sicuramente più seria e più meritata. Quei poichi soldi sì, quelli sono spesi bene. Ma nessun venditore te lo dirà, devi scoprirli da solo. Inoltre funziona solo se quello che fai è davvero buono su entrambi i piani:  la qualità del prodotto e l’etica del processo.

Cos’è la Bontà

Assumendo il cibo nel corpo, noi assumiamo il mondo

Michail Bachtin da L’opera di Rabelais…

Mamma, ho fame di porcherie

Che differenza di sapore c’è tra un pomodoro industriale che viene dall’Olanda in marzo e quello coltivato dal nonno in agosto? Siamo ancora capaci di sentire la differenza di sapore e odore?
Questo è un tema culturale, oltre che colturale: un concetto di cultura molto sensoriale, legato ai percettori, come abbiamo imparato dall’arte del novecento e poi disimparato dalla TV e dalle sue anestesie.

Fame e obesità

Quando in Brasile Lula ha avviato la sua campagna contro la fame, gli esperti hanno studiato la questione e gli hanno detto: i problemi sono due, la fame e l’obesità1. Sono collegati, appena esci dalla fame entri nella trappola del “cibo-spazzatura”, la sbobba industriale dai sapori stereotipati.
Mettere dentro, introiettare: nei tempi antichi ogni cibo era magia, era un contatto con gli dei, interiore nel senso più concreto e letterale del proprio corpo come tempio.

Oggi, tempio profano in tempo profano, la magia del corpo è desacralizzata, gli dei del cibo sono di scarsa qualità e per sentire qualche soddisfazione pare che si debba ripiegare sulla quantità. Poi gli dei si manifesteranno tuttalpiù con un rutto, e tu ti sentirai, sempre e comunque, insoddisfatto.

L’insoddisfazione del palato

Insoddisfatto, sì, perché la vera soddisfazione del cibo sta sul palato, sulla lingua, sulla lentezza del masticare per sentire i profumi… “Col cibo ci devi fare all’amore” diceva Veronelli; ma come si fa, con le porcherie implasticate dell’industria alimentare? stanno all’amore come la pornografia sta all’innamoramento.
Così l’unica simbologia psicologica profonda resta la distanza tra lo specchio e gli stereotipi della bellezza, che naturalmente non appartengono più al corpo, ma al “non corpo”.
La grande mammella industriale ti dice che devi ingozzarti ma restare magro, è un doppio legame classico su scala globale, che comporta una schizofrenia di massa. 2

Il big mac index e la campagna

Per una volta non è questione di essere ricchi o poveri, non solo; il cibo spazzatura cambia prezzo a seconda del posto, per permettere a tutti, democraticamente, di riempirsi di colesterolo; ricordate che l’hamburger di McDonald’s è diventato un indicatore standard (il big mac index) del valore di acquisto nei diversi paesi. a Nairobi un big mac costa 3 ore di lavoro, a Città del Messico due; ma da noi costa una mezz’oretta di lavoro, quanto a Shanghai, Johannesburg, Mosca e San Paolo del Brasile.
Oddio, c’è metà del mondo affamata, che un hamburger se lo sogna; è piuttosto questione di essere cittadini o campagnoli (adesso siamo proprio nel momento fatidico della storia in cui la percentuale di umani che vive in città ha superato quella rurale), quindi di poter accedere a del cibo vero direttamente coltivato o doverlo intermediare completamente attraverso dei canali commerciali e industriali.

La ferita dei non contadini

L’esperienza del coltivare è una delle più profonde dal punto di vista psicologico formativo; vedere il tuo semino che germoglia, mangiare qualcosa che tu hai seminato è fondante dell’identità individuale; genera un senso positivo di feconda potenza operativa, di integrazione col vivente, di decelerazione verso i tempi lenti del ritmo annuale della natura; chi deve fare a meno di questa esperienza, ha una ferita.

L’operaio, anche lui forgia qualcosa di concreto; mi ricordo negli anni ’60 il lutto di chi passava dall’officina alla catena di montaggio: “non so più quello che sto costruendo”. La grande fabbrica pianificava il lavoro con la logica del dispositivo meccanico. Oggi l’avvento del digitale porta l’ulteriore “progresso”, l’operaio non è più considerato un ingranaggio ma una riga nel listato della programmazione.

Anche il contadino era precario: bastava una grandinata, una brinata fuori stagione, per passare per un anno da ricco a povero. Mangiava rape invece di braciole e pensava “come sono cattive”. Però stava all’interno di quella coerenza tra narrazioni, materia e calorie che oggi, per premura, chiamiamo identità. La precarietà dei giovani di oggi è diversa: magari salti il pranzo ma non la birra cogli amici, ne hai più bisogno, perché oltre alle calorie servono anche le coerenze tra le narrazioni, se no ti perdi.
La pubblicità televisiva entra benissimo in questa lacuna e la colma di surrogati, condizionando moltissimo le nostre abitudini alimentari; il mestiere del marketer è principalmente inventare una personalità artificiale ai prodotti, perché siamo orfani di bontà nel senso di coerenza delle narrazioni.

Ci piace mangiare quello che ci piace pensare

Ogni cibo ha una funzione simbolica ben superiore a quella alimentare e gastronomica, ci piace mangiare quello che ci piace pensare; per questo, ad esempio, per noi italiani è intollerabile mangiare insetti, per un arabo il maiale, per un balinese il latte …
Ci piace invece qualcosa che associamo a pensieri positivi; mi ricordo delle animazioni teatrali a scuola in cui offrivamo del cibo nelle classi; nessun bambino esitava, ad esempio, a mangiare un pezzettino aringa affumicata (ed era quella vera, bella puzzolente…) che nella narrazione erano il cibo dei guerrieri vichinghi; tornavano al tagliere dicendo: “che schifo, dammene ancora!” Erano gli stessi bambini che a mensa facevano le tragedie greche per rifiutare ogni cibo che deviasse dal prevedibile.

La mela bio e la mela di Biancaneve

In quel formidabile laboratorio di analisi chimiche che è la nostra bocca, l’evoluzione ci ha insegnato a distinguere un’erba buona da una velenosa, una carne fresca da una avariata… Oggi sa ancora distinguere una mela bio da quella modello Biancaneve del supermercato?

I cibi industriali sono contraddistinti anche da un valore minimo della merce: quando la pagate il suo prezzo, pagate la pubblicità, l’intermediazione, il packaging, lunghissimi trasporti, ma di cibo ne pagate ben poco. È questa la differenza della mela del contadino, magari coltivata senza “medicine”; in quel caso il 100% di quello che pagate va al produttore, tra voi e il contadino non c’è nessuno che sfrutta entrambi e questo crea la possibilità di un’economia di acquisto in cui siete reciprocamente solidali e in cui non c’è più solo il supermarket come unica opportunità.

E’ falsa economia calcolare se costa più o meno la mela del contadino bio o quella del Supermarket.
Quello del prezzo al chilo è un falso problema:
– se le mele non sono buone mangiate altra frutta più cara;
– statisticamente il 30% delle derrate acquistate invecchiano in frigo e si buttano via, quindi ne comprate di più del necessario anche se il prezzo al chilo è inferiore;
– la buccia nel bio è saporita, croccante e aiuta a dimagrire perché è ricca di fibre, nell’industriale è da sbucciare e buttare.
La vera economia è se create un canale d’acquisto diretto e libero e create un momento di economia sana, che può diventare una routine se l’acquisto diventa un’abitudine.

Oggi quando leggete che un’azienda alimentare spende dei soldi in “ricerca e sviluppo” aspettate a gioire, non pensate che arrivi l’occupazione per i far restare in Italia i nostri giovani ricercatori colla valigia in una mano e il passaporto nell’altra.
Nel R&S spesso ci sono degli ingegneri che programmano un cibo nuovo, su indicazione delle ricerche di mercato e degli inventori di additivi. Poi, quando l’hanno inventato, ad esempio una merendina, lo passano al marketing che inculca a tuo figlio che quella roba è “buona”.

 

1Ibge (Instituto brasileiro de Geografia e Estatística): bilanci familiari e dell’alimentazione in Brasile. La ricerca, denominata Pof (Pesquisa de orçamentos familiares), si riferisce agli anni 2002-2003.

6 Bellezza

Tutti i giorni passo in tangenziale di fianco al “termo-valorizzatore” di Brescia il cui camino è un parallelepipedo slanciato, colorato con una sfumatura graduale di blu-azzurro.
In ogni condizione del cielo, accoppia in un modo incantevole sfondo e figura, con un uso essenziale e pulitissimo dello spazio.
Da quel tubo così perfetto ed elegante ogni giorno passano tonnellate di nanoparticelle infinitamente più piccole del PM10, che entrano nei pori, negli alveoli polmonari; c’è un’industria miliardaria che fa soldi con la nostra salute bruciando il nostro pattume.
La lobby degli inceneritoristi ha amici tra i politici di ogni area e controlla la stampa, ma il cancro che è arrivato a persone a me care dev’essere partito proprio da quel bellissimo slanciato tubo di blu sfumato.
Non è vero che bello è buono; il gusto estetico, come l’intelligenza, è in vendita e i da sempre potenti si possono permettere le prostitute più belle.

D’istinto pensiamo che bello = buono. In natura spesso è così, il fiore è bello perché chiama l’insetto impollinatore, l’individuo dell’altro sesso attrae perché è la stagione degli amori, eccetera.
Noi umani oggi con fatica scopriamo che spesso bello non significa buono: c’è la trappola, il travestimento, la mistificazione, la seduzione in malafede. Separare buono e bello è una fatica, in qualche modo è una schizofrenia.

Tornassimo a zappare

«La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere.» diceva in un verso di John Keats quasi 200 anni fa guardando un’urna greca. «Il bello non è vero», scriveva invece Leopardi solo cinque anni dopo.
Vorrei dare ragione a Keats, ma mi tocca dar retta a Leopardi, me lo dice la mia pancetta sovrabbondante.
200 anni fa (ma anche 100, anche 50…) le donne lavoravano nei campi e mangiavano cereali e verdure: erano magre, toniche ed abbronzate come oggi vorreste essere voi, care lettrici; ma allora il prototipo di bellezza era una donna pienotta, morbida, languida, un po’ atona: carne bianca come la neve con guancette rosse come le mele.
Voi ora state in ufficio e mangiate cibo industriale, siete delle bellissime ottocentesche: cicciottelle morbide, pallide, languide, un po’ atone. Invece di leggere Keats e compiacervi davanti allo specchio contemplando i vostri candidi rotoli inguinali voi, iconoclaste che non siete altro, vi massacrate di diete, lampade e palestra. Le contadine, per zappare, le pagavano: poco, ma le pagavano; voi, in palestra, non vorrei dire… Lo faccio anch’io che sto scrivendo, ma mentre alzo i manubri o pedalo su una cyclette fatico molto a non sentirmi cretino, per due motivi:
1, uso come paragone delle mie cicce il ventre marmoreo del limitrofo bisteccone professionale, e ditemi voi se questo non significa farsi del male da soli; significa che mi assimilo a un standard estetico che non mi appartiene, e che anzi che mi fa pure un po’ fastidio.

2, tutte quelle calorie che il mio corpo emette non generano lavoro ma consumo: questa è il modo più imbecille di faticare mai adottato da muscoli umani da millenni, designa inequivocabilmente che abbiamo superato il culmine dell’evoluzione umana e che d’ora in poi regrediamo verso l’ameba.

Ci costruiscono sbagliati di default.

Nei miei albori professionali son passato dal meraviglioso mondo della moda milanese. Vi testimonio che è vero: perfino le bellissime indossatrici quando si guardano nello specchio non si piacciono.
Me ne ricordo una sui vent’anni in un backstage che mi urlava disperata mostrando che aveva la cellulite stringendosi un gluteo (una semisfera levigata e marmorea collocata all’altezza in cui noi umani abbiamo il torace) in piena crisi nevrotica con tanto di vomito e sfasciamento di piccole suppellettili simboliche. Questo aneddoto risale a decenni fa, lo raccontavo a ogni conferenza sottintendo alle signore in sala: perfino le modelle non si piacciono quindi voi rilassatevi pure, la vostra reale forma fisica c’entra ben poco con l’arte di piacersi; finché una delle signore in sala mi ha riferito che la maggior parte capiva a modo suo: se perfino le modelle non si piacciono, figurati io. Così ora racconto di Rubens col pennellino piccolo che piano piano dipinge la cellulite, un pallino alla volta, alle cosce della sua sensualissima Venere al Bagno. Che voluttà!

C’è poi lo stereotipo dell’età. I bambini vorrebbero crescere in fretta per avere già vent’anni. A venti – venticinque anni è un’età di cacca: di precariato sentimentale, lavorativo, abitativo, ideologico, geografico e in tutti gli altri sensi, specialmente oggi che i giovani stanno peggio dei vecchi. Verso i venticinque cominci a sentirti un po’ vecchio, e vai avanti così fino a 90 rimpiangendo i 25.

E vogliamo parlare dell’identità maschile? E dei ruoli (non sei un bravo marito, non sei una brava moglie, non sei un bravo genitore…)? E di quella trappola vecchissima (che funziona meno, ma funziona ancora) della merce come indice dello status sociale, tipo: comprare il macchinone per essere invidiato e ammirato?

Il marketing ci programma per non piacerci

Dunque abbiamo parlato prevalentemente della bellezza femminile perché ha gli stereotipi più evidenti, ma i programmi di disinstallazione dell’autostima sono elaborati per ambo i sessi e per tutte le età.
Il perchè è semplice: citando Beigbeder, “la gente felice non consuma”1.

1 Frédéric Beigbeder Lire 26.900 Feltrinelli

5 Cultura

Non potremo mai diventare colti
come un pastore analfabeta del ‘300

Immagina di essere un pastore del 1300 perduto nelle campagne toscane.
Sei analfabeta, vedi 20 persone all’anno, ti esprimi con poche centinaia di parole; soprattutto non vedi immagini, mai.
Una volta all’anno però, a piedi, porti gli agnelli fino a Firenze per venderli.
E lì entri in una chiesa e vedi una Madonna di Giotto. Che effetto ti fa?

Io sono sicuro che provi una perturbazione emotiva improvvisa e indicibile; la immagino come una vertigine che noi istruiti chiameremmo estetica, mistica, erotica, cosmogonica, psicanalitica… (quante parole per rimpiangere una tale potenza interiore) ma tu non hai parole, hai solo questa sensazione commuovente e sconvolgente.

Come succede a chi ha pochi filtri intellettuali, probabilmente ti prenderà la pancia, ti darà le vertigini e avrai bisogno di sederti a riprendere il fiato e asciugare le lacrime; da quel giorno quel sorriso ti accompagnerà nel sogno di molte notti.
Forse ne vorrai un piccolo simulacro da portare addosso, di quella cosa davvero sacra, nel senso che davvero modifica lo spirito del il tuo quotidiano vivere nel mondo materiale.
Avrai ad esempio qualcosa di femminile e protettivo a cui parlare sottovoce quando le nuvole minacciano grandine sul raccolto quasi maturo.
Cari miei contemporanei dell’era delle immagini inflazionate, leggere pure tutti i libri di storia dell’arte che volete: non potrete mai provare e nemmeno concepire l’impatto estetico ed estatico di un’immagine quando le immagini non erano, come sono oggi, troppe.
Nessun rimpianto, non fraintendetemi. Ma vi raccomando la conspevolezza di questa abissale differenza e un po’ di nostalgia per una più potente capacità estetica. Noi non siamo discendenti di quel pastore; non potremmo mai esserlo. Siamo discendenti dell’artigiano fiorentino che, se ha venduto al pastore il piccolo simulacro, probabilmente ha scoperto che ne poteva fare una piccola serie, quindi per lui era già una madonna colla emme minuscola, profanata e profana.

4 Fluidità

I nostri messaggi come auto nel traffico

Avete presente quei tipi che quando sono in auto si incavolano coi pedoni e quando sono a piedi ce l’hanno cogli automobilisti? Anche se non è simpatico, vi annuncio che tutti noi gli somigliamo: quando emettiamo dei messaggi pretendiamo che il ricevente li ascolti distinguendoli nel caos in cui è immerso; ma quando siamo noi a ricevere simili input ne siamo infastiditi, spesso sentiamo pure insofferenza per chi li emette.
Come esempio prendiamo la forma di comunicazione più elementare ed economica, un volantino.

L’arte, frustrante, di volantinare

Voi fate un volantinaggio e la gente rifiuta il vostro foglietto senza neanche sapere cosa c’è scritto: non è una bella sensazione.
Con alcuni studenti di Milano1, abbiamo videoregistrato un volantinaggio per capire quanto tempo si posa lo sguardo del ricevente sul foglio prima di decidere se accettarlo o no. La videoripresa dei bulbi oculari fu meno difficile di quanto si potrebbe pensare: i pedoni dovevano passare per una strettoia in fila indiana illuminati in faccia dalla luce del mattino.
Come spesso succede, si impara di più dagli insuccessi che dai successi: il tempo dello sguardo era così infinitesimale che non era quasi mai misurabile e comunque quasi nessuno voleva il volantino.

L’importanza di capire subito l’argomento

Innanzitutto abbiamo scoperto che lo sguardo si posa più a lungo sul volantinatore che sul volantino.
Non ci è sembrato che fosse una questione di bellezza o eleganza. È stato smentito anche il mantra misogeno un po’ di gnocca funziona sempre: una studentessa molto graziosa che appositamente si era “messa in tiro” ha avuto grossomodo lo stesso insuccesso di coetanei maschi meno belli. Tutti hanno testimoniato invece l’impressione che il passante guardasse il volantinatore per capire l’argomento e quindi quanto gli interessasse il volantino.
Si trattava della promozione di un concerto di una band di studenti, e chi si vestiva in modo simile all’argomento (cioè coerente allo stile e al genere della band) aveva un po’ meno insuccesso degli altri.

Dice molto più la grafica del testo

La misurazione del tempo dedicato allo sguardo sul volantino è stato il dato più clamoroso, così breve da essere praticamente impercettibile, poco misurabile neanche dove potevamo fare il timing in digitale della videoregistrazione dei bulbi oculari: un tempo nell’ordine dei pochi decimi di secondo.
Per leggere una sillaba ci vuole circa un decimo o due, a chi legge poco anche mezzo secondo. Ma prima ne servono almeno 4 o 5 per capire la pagina ed orientarsi in essa. Quindi uno sguardo che dura pochi decimi di secondo, dato da lontano a un mazzo di volantini in movimento, basta al massimo ad avere un’idea flash dell’impaginazione e leggere forse una parola del titolo. Questo è quello che decide se il messaggio passa o non passa, quindi la cosa più importante di tutte.

La questione cambia, ma poco, per i tanti volantini accettati, appena degnati di uno sguardo e poi abbandonati. Di solito sono gettati a terra: un comportamento poco civico e poco ecologico che però è indotto dalla logica stessa del volantino, che sollecita lo spreco di carta.
I volantini subito abbandonati o gettati sono guardati per un tempo più lungo, ma raramente superiore al secondo. In un secondo mi faccio una discreta idea flash sul volantino (coerenza grafica, colore, ingombro) e leggo forse una parola del titolo.

La relazione è più importante del contenuto

Il volantinatore che guarda il passante negli occhi con un sorriso franco e gli mostra da lontano il volantino, senza fare gesti invadenti, ha una discreta probabilità che questi lo richieda spontaneamente, ribaltando i ruoli. Naturalmente la grafica deve essere amichevole e si deve capire subito l’argomento. Così, tra l’altro, i volantini abbandonati per terra diventano pochissimi: si possono raccogliere e se sono puliti riusare, se no gettarli nella carta da riciclare; non è solo una questione ecologica, è anche evitare una ferita narcisistica: la brutta sensazione si prova quando una cosa a cui tieni è per terra calpestata da tutti.
Anche se è una relazione che dura un istante, in quell’attimo lo sguardo reciproco tra chi dà e chi riceve il volantino libera entrambi dall’anonimato; distribuisci meno volantini (risparmiando carta e soldi), ma è più probabile che vengano letti, specialmente se li offri a chi entra in metropolitana, che avrà un po’ tempo per leggere.
Ma questo agli studenti non l’ho raccontato subito, era necessario che lo scoprissero da soli: queste cose, se le “insegni” a mo’ di manualetto di istruzioni, ne perverti il senso.
Lo scopersero solo alla fine del secondo giorno.

1, in particolare Facoltà di Informatica/Polo di Crema, classe di Nuovi Media aa. 2002-03, più a titolo personale una studentessa della IULM e due studenti medi del Parini. Si è trattato di due mattine feriali davanti a un ingresso della metropolitana. Le videoregistrazioni sono state informali, autogestite dagli studenti; il metodo seguiva una pragmatica di “caccia al problema”, quindi la ricerca non pretende di avere alcun valore statistico quantitativo. I risultati che qui riassumo sono esiti esperiti dai partecipanti, ai quali devo molte delle intuizioni che qui riporto.

 

3 Vicinanza

 

Vai a Milano, ma a chilometri zero

 

Se è corta la filiera, migliora la qualità del prodotto, il suo prezzo è più vicino al prezzo sorgente, il territorio agricolo è più bio-diverso, il contadino guadagna il giusto e l’unica migrazione che deve fare è quella dalla quantità alla qualità.
E poi ci sono meno camionisti impasticcati che guidano il TIR 16 ore di fila, c’è meno camorra nei mercati generali, c’è meno chimica sui campi. E chissà mai, magari verrà un felice domani in cui i buyer della GDO che oggi ricattano gli agricoltori (“o me le vendi a un euro a cassetta o te le tieni a marcire”) resteranno disoccupati e andranno a zappare, tanto per vedere che fatica si  fa.

Le arance dei norvegesi

Con quel freddo, gli serve tanta vitamina C: come la mettiamo col principio del Km zero? Comunque vada, un flusso tra nord e sud e tra campagna e città ci sarà sempre, per ovvi motivi climatici e demografici; la sfida è ridurla e che anche questa parte della distribuzione, a filiera geograficamente più lunga, sia gestito dal basso, da parte del piccolo produttore verso gli acquirenti organizzati, ad esempio coi GAS, in modo da tutelare il territorio, minimizzare i costi energetici, assecondare le stagioni naturali e consentire a chi vive in zone più affollate o più fredde di mangiare in modo sano.

 

100 km dal Duomo

 

La cartina che vedete è il giro di 100 chilometri disegnato da un compasso con lo spillo sul Duomo di Milano. All’interno di questa circonferenza abitano circa 11 milioni di abitanti, un italiano su 6 (e pure qualche svizzero). Se avete un agriturismo in Maremma, se producete arance in Sicilia, se siete teatranti veneti… un cliente su sei abita lì. Notate che è un cliente che spesso genera passaparola sul resto della penisola: meno della metà sono nativi lombardi e mediamente usano i social media più degli altri italiani. Tutti concentrati, sono più facili da raggiungere.
Ricordiamoci che non ci serve pubblicità generalista: preferiamo farci trovare da chi ci cerca, limitarci a dire che esistiamo e come trovarci; infine quando arrivano i contatti (pochi ma buoni), dobbiamo curarli bene.

 

Esempio

 

Una fiera come “Fa’ La Cosa Giusta”, può essere lo sforzo che vi rende liberi dal bisogno; per quello scopo mille euro di spot su una radio come Radio Popolare possono bastare a colmare le vostre esigenze per molti anni senza ulteriori spese pubblicitarie, ma (mi raccomando!) solo se lo spot è buono, solo e è ben cross-mediato sul vostro sito, solo se è sufficientemente integrato coi social media, solo se tutto ciò precede la fiera e solo se dopo la fiera sapete coltivare con pazienza e disciplina i contatti acquisiti. Se no son soldi buttati via.

 

Pochissime migliaia di euro: sforzo piccolo in assoluto, ma non piccolo per piccoli produttori con pochi soldi e (quel che è più difficile) con poco tempo. Voi non pretendete di arricchire, volete solo arrivare alla soglia di sicurezza e raggiungere un’economia sufficientemente serena; calcolate quanto vi costerebbe farvi conoscere in posti meno densi: dovreste essere più generalisti, la vostra pubblicità sarebbe più spam, sarebbe più costosa, meno gradita, inutile, troppo simile a quella di coloro cui non volete somigliare.

 

 

2 Differenza

Abbiate differenza se cercate identità

Leggete bene questa paginetta, per molti di voi è lo spartiacque tra un lavoro sereno e la disoccupazione.
Incontro spesso l’artigiano calzaturiere che vorrebbe un logo da multinazionale, l’agriturismo che vorrebbe un nome che somigli all’hotel fighetto, l’erborista che vorrebbe il nome in inglese “così mi prendono più sul serio”…
Sono convinti, determinati: dicono che “l’istinto glie lo dice”, che “non ascoltiamo il cliente”; ma la vocina che parla dentro di loro è solo il frutto di una vita immersa nella retorica del marketing.
Mostro questa immagine a loro e a tutti quelli che desiderano uniformarsi agli standard e nascondere le proprie differenze per timore di sembrare troppo strani, bizzarri o anticonformisti.
La nostra differenza a volte è difficile da sostenere: mentre tutti i “normali” ambiscono a diventare in qualche maniera “speciali”, chi ha fatto scelte più divergenti si scontra continuamente coi pregiudizi, le incomprensioni e i luoghi comuni; a volte farebbe volentieri a meno di questo stress.
Negli altri campi della vita ciascuno faccia quel che si sente, ma nella comunicazione assomigliare al cliché significa perdere un’occasione preziosa e spesso irripetibile per incontrare chi ti cerca.

Quest’immagine è molto usata nella Gestalt, la psicologia della forma applicata alla visione. Dovete scegliere se vi conviene essere un omino nero o quello arancione, tutto qui. E’ plausibile pensare che gli omini neri siano tutti simili: abbiano gli stessi gusti, le stesse idee, le stesse aspirazioni… Probabilmente tentano tutti di essere visibili conformandosi agli standard; ovviamente questa ricerca di visibilità genera il suo contrario e li rende fatalmente trasparenti, omologati e indistinguibili.

Siate speciali, è più facile che essere normali

Vale anche per le identità aziendali; in termini banalmente economici: se siete quello arancione sarete riconosciuti con poco sforzo, se siete quello nero per farvi notare sul vostro mercato dovrete fare pubblicità tradizionale e pagare molti più soldi, tempo e fatica, con risultati che saranno labili nel tempo. Tipicamente dovrete competere sul prezzo e non sulla qualità, perché solo nella fattoria di Orwell si può essere “più uguali degli altri” , nelle altre condizioni per distinguersi occorre essere diversi.
Il cervello umano tenta di organizzare come può i miliardi di dati che percepisce continuamente, e per farlo usa delle regole mentali; una è questa: più è semplice la rappresentazione, minore è lo stress. Quando un elemento si ripete molte volte, la mente genera un tutt’uno, un unico insieme coerente e continuo dei mille elementi ripetuti. Se ci sono delle minuscole differenze tra gli elementi, non ce ne si accorge: la somiglianza è più preziosa per la mente dei dettagli, perché permette di raggruppare gli elementi simili in un unica forma.

È evidente a tutti che oggi il paesaggio mediatico vero è ben diverso da questa immagine: ogni omino del marketing vero, quando cerca di entrare nella nostra testa, è coloratissimo, chiassoso, saltellante, sexy, veloce, spiritoso e reclama la visibilità; la vostra vera difficoltà è probabilmente quella di sentirvi un piccolo omino nero in mezzo a cento pupazzi sgargianti invadenti e chiassosi che si rubano a vicenda la scena (dove la “scena” è la satura l’attenzione di ciascuno di noi). Inutile concorrere in quel contesto, meglio altri territori di comunicazione.

 

 

1 Lealtà

Serve lealtà tra chi vende e chi compra

Qualche decennio di spavalderia anti-etica nel nome del busines is business, ha declassato il tema della lealtà nel dominio delle ingenuità e dell’idealismo.
Invece dai tempi in cui la prima nave fenicia buttò l’ancora è l’elemento statutario nella storia del commercio.

Propongo due metafore: l’esca che seduce il pesce e la corolla di un fiore che seduce l’insetto impollinatore.

In entrambe c’è qualcosa di buono (cibo, colore, profumo) che attira con un premio.

Nel primo caso c’è l’esca studiata per essere piacevole: un odore che piaccia al pesce, un colore e un movimento che lo attiri; sotto l’esca c’è l’inganno. Se vince il pescatore il pesce prede e viceversa, molti di voi avranno già letto della “teoria matematica dei giochi” che analizza questa situazione tra vincente e perdente. Matematici ed economisti distinguono i giochi cooperativi e quelli non cooperativi; il concetto è semplice, se perdere vale meno uno e vincere vale più uno, il gioco tra pescatore e pesce è sempre a somma zero. Come una partita di calcio.

Nel caso del fiore c’è un criterio di lealtà: l’insetto gode di una piacevolezza assoluta di cibo, colore, profumo…; non muore di questo, anzi ci campa e probabilmente gode di un piacere supremo che in noi assommerebe quello sessuale, gastronomico, estetico, olfattivo, cromatico e chissà quanti altri. Non fa altro tutta la vita e ci fa pure le scorte per l’inverno. È un gioco “a somma diversa da zero”: o entrambi vincono o entrambi perdono.

Pare che la base della teoria fosse stata formulata dal matematico Jhon Forbes Nash (quello di “A Beutiful Mind”) quand’era giovanissimo studente, per corteggiare con successo le ragazze del campus. Come dei fessi tutti i maschietti facevano il cascamorto con la più carina, come se fosse un gioco a somma zero: come è facile immaginarsi perdevano tutti, lei non ci stava e le altre fanciulle, naturalmente, preferivano ragazzi di altre facoltà. Era un gioco a somma diversa da zero.

Noi ci muoviamo in un ”mercato” diverso dalle ragazzine del college, ma quasi sempre facciamo lo stesso errore, agendo competitivamente dove serve collaborazione, cooperazione e sinergia. Se vi interessa approfondire, studiate “Teoria dei giochi” su Wikipedia.

 

Uno vince e uno perde

Gioco a somma zero

Esca appetitosa:
seduzione manipolatoria
Trabocchetto

La trasparenza è un difetto

Bello non è buono

O vincono entrambi,
o perdono entrambi

Gioco a somma diversa da zero

Fiore (colore, profumo…)
seduzione piacevole
Lealtà

La trasparenza è un vantaggio

Bello è buono

 

10 Sbagliare la materia

Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni

William Shakespeare

Se vuoi parlare di ecologia o di etica e mostrare a tutti che sei un bugiardo, o quantomeno un gran superficiale, il sistema è semplice: usa carta di cellulosa vergine. Meglio ancora se è patinata da 200 grammi e ne usi tanta, magari con abuso di inchiostri colorati. L’effetto è certo.
Lo so;  quasi tutti gli stampatori di provincia in magazzino ne hanno solo di pessima o di carissima e ti racconteranno la diffusa squalificante scusa:  “tanto non è vero che quella riciclata inquina di meno”.
Se dicono così sono bugiardi o male informati, quindi scarsamente professionali (in fondo a questo capitolo troverete i dati ecologici). In questo caso porse vi verrebbe voglia di rinunciare: di stampare su carta “normale” per premura e per ridurre le complicazioni; non fatelo. Dovete cambiare subito stampatore, per ottenere un buon lavoro e per rieducare la categoria.
E anche per salvarla, perchè questa loro inerzia sulle vecchie abitudini dirotta tanti loro clienti verso il web to print (sigla W2P), cioè verso grandi aziende sovranazionali come Pixart o FlyerAlarm, a cui mandi via internet il pdf da stampare e dopo 48 ore ti arriva in ufficio il corriere che ti consegna la carta già stampata a un prezzo competitivo… (per le piccole tipografie di paese è un massacro, ma dove il tipografo è sleale questo massacro ci fa meno impressione).
Col W2P è possibile, tra le altre cose, anche una scelta di qualche carta riciclata (una varietà non ricca, ma abbastanza accettabile e sicuramente più economica).

Se la carta è pulita le parole respirano
Certo, la carta ecologica può mascherare il green washing. Oggi qualcuno parla anche di brown washing per indicare l’uso dei colori écru per far sembrare ecologico un prodotto che non lo è (evidente; al supermercato guardate i banchi del fresco o dei biscotti… quante porcherie industriali travestite!)
Tuttavia sicuramente una carta non ecologica denuncia che chi la usa è un inquinatore e un abbattitore di alberi; che fiducia meriterebbero le tue parole scritte su una carta che inquina il tuo lettore?

Quanto è ecologica l’estetica!
Davvero una carta con una nuance color terra è più brutta di quella bianchissima? Davvero una carta che al tatto è porosa e calda è peggiore di una fredda e liscia al punto di sembrare viscida? Davvero il suono che fa la carta e il suo odore non significano nulla a livello inconscio?
Oggi tutto intorno a noi è coperto da una superficie fittizia: compri delle mele bellissime lucide e colorate, ma le devi sbucciare per non avvelenarti; le sbucci su un vassoio che sembra di legno ma in realtà è solo coperto di plastica color legno, appoggiato su una cucina che sembra di marmo ma è solo agglomerato sintetico color pietra; alla fine le mangi e, mentre la radio ti coccola con una bella musica di sintesi, ti guardi allo specchio e ti chiedi se quella persona sei tu o è la tua cosmesi.
Siamo circondati da moltissimi oggetti ma la materia sostanziale di cui son fatti è nascosta, si vede solo la pelle di plastica lucida e coloratississima. Toccateli, odorateli, sentite se sono caldi o freddi: siamo intrappolati in un mondo anaffettivo, creato solo per ingannare l’occhio; siamo bravi a non impazzire, ma così non va assolutamente bene.
Googlate “privazione sensoriale”: scoprirete che in alcuni stati (polizieschi ma “democratici”) per indurre un detenuto al suicidio, si usavano stanze anecoiche (dove il suono non rimbomba) con obbligo di indossare i guanti e luci diffuse (senza ombre). L’assenza di percezioni (o più precisamente l’assenza di percezione neuronali di cambiamenti provocati dalla propria presenza) porta rapidamente a depressione e allucinazioni.
La città, gli appartamenti, i posti di lavoro… questo incubo di superfici senza grana, di oggetti senza odore e freddi al tatto, fa diventare rara e preziosa qualsiasi cosa che abbia una propria matericità, una propria filigrana, rugosità, imperfezione geometrica.

Tre motivi per sceglierla ecologica:

1. costruire uno stile in cui per essere bello un oggetto deve avere un corpo

Se racconti di aver fatto una scelta naturale, ecologica o innovativa, devi uscire dai cliché epidermici della carta “bella bianca”.
Anche un oggetto piatto e bidimensionale come la carta può avere una sua profondità.
La questione tecnica-grafica è che se usi una carta più materica e corposa (meno “plasticosa”) non puoi usarla trasferendo semplicemente su di essa quell’idea di “bello” basato su colori molto contrastati, grafica tecno, bianco abbacinante… un tale modo di far grafica, effettivamente, sui materiali naturali porosi e ruvidi può essere disastroso.
Occorre un’estetica che faccia virtù delle fibrosità, delle granulosità, delle textures; i colori si appastellano, la nitidezza deve essere migliore e con più aria, per gestire bene il segno dell’inchiostro sulla carta che risulterà un pochino meno nitido. Significa cambiare radicalmente stile; il risultato si vede.
Notiamo che questo passaggio è simulabile abbastanza bene: ci possono essere aziende che fanno finta di essere verdi usando bene i colori “sporchi” e la grafica un po’ granulosa su carte riciclate, se il progetto grafico è buono, esteticamente il risultato può essere bellissimo anche se eticamente non lo è affatto. Dunque non è automatico che chi fa questa scelta estetica sia sincero. Ma è automatico il viceversa, cioè: chi non la fa non è coerente.

2. generare mainstream

Il secondo motivo è che tutte le volte che facciamo comunicazione modifichiamo l’idea di cosa sia“normale”. Significa innanzitutto che molte persone scoprono il gusto di avere in mano un foglio sensorialmente diverso. Significa che associazioni, cooperative, gruppi cominciano finalmente a porsi il problema. Significa che diventa più probabile che uno stampatore abbia in casa la riciclata e che i grandi web to print (tipo Flyeralarm o Pixart) abbiano maggior scelta di carte ecologiche e uso mano.

3 inquinare meno per salvare il Pianeta.
Il terzo è il più importante, anche se è ovvio. L’ho lasciato in fondo ai tre perché implica un’altra questione: quanta carta usiamo; cioè occorre controllare la tiratura, usare anche i ritagli (per segnalibri, visita, piccoli gadget a costo zero…) e soprattutto progettare bene la comunicazione trasformando il vincolo in risorsa: ad esempio un volantino A5 se è scritto e impaginato bene è sicuramente più efficace di tante brossure patinate grandi come libri che si vedono nelle fiere
Ricordiamoci che molta della roba che abitualmente si stampa starebbe meglio su internet: per ecologia, e anche per economia e per reperibilità. Solo se stampate un testo importante che la gente vorrà leggere spesso, o che deve sopravvivere varie generazioni, (ad es. una storia locale con testimonianze degli anziani che tutti i compaesani vorranno avere in casa o cercheranno in biblioteca) allora forse vale la pena di consumare materie prime preziose. Ma quasi sempre si stampa carta senza questi due importanti scopi.
Invece ciò che ha vita breve, che dev’essere aggiornato frequentemente, che è difficile o costoso da distribuire, o comunque di cui non controlli bene la distribuzione e quindi non sai bene come calcolare la tiratura (spesso si stampa in quantità eccessiva illudendosi di risparmiare nell’economia di scala, poi restano tante copie inutilizzate in magazzino)… quasi sempre queste cose stanno meglio su internet.
Vale ovviamente per l’inutile brossura patinata di 30 pagine piena di testi in corporatese e foto trovate sulle banche immagini (sarà inutile anche su internet, ma almeno non avrà fatto guai).
Vale però anche per le cose importanti: non stampate su carta il vostro bilancio sociale di 120 pagine, anche se ci avete messo due mesi a farlo e se lì dentro c’è il senso del lavoro di tante persone: avreste difficoltà a distribuirlo e fra un anno sarà vecchio; basta stampare su carta l’abstract ben leggibile di 15 pagine: l’importante è mettere sul sito il PDF completo a disposizione di chiunque: chi ha interesse potrà accedervi, scaricarselo e magari trovare le parti che interessano usando la funzione di ricerca parola.

Non c’è solo la carta

La qualità materica e sensoriale non riguarda solo la carta. Già cominciamo a scoprire che i cibi troppo raffinati fanno male, che gli abiti in fibre sintetiche sono meno sani e durano meno. Quando parliamo del lay out del tuo negozio, degli imballaggi dei tuoi prodotti, delle stoffe, degli arredi, degli stand, perfino della voce che legge il tuo spot alla radio… il problema è simile. So benissimo quanto è pratico arrivare a una fiera col roll-up di PVC prestampato: lo porti con un trolley e in pochi minuti lo monti. Poi però diecimila persone ti passeranno davanti pensando che tu sei di PVC; e che sei come tutti gli altri. Non dico di cadere nell’eccesso opposto (tipo il lenzuolo di cotone scritto col pennarellone), ma una via di mezzo personale e creativa non è poi così difficile.

Approfondimenti

Naturale o patinata?
Ci sono due tipo di carta da stampa: quella naturale (o “uso mano”) e quella dove la porosità viene riempita da una patina mediante miscele chimico-fisiche. Un tempo la carta patinata (con caolino o carbonato di calcio) era considerata migliore perché coi vecchi processi di stampa c’era meno dispersione di inchiostro e il carattere risultava più nitido. Oggi è il contrario, la patinata moderna è di solito molto lucida e il riflesso rende difficoltosa la lettura, specie se si ha una luce alle spalle o se si legge in piedi all’aperto. Quando ricevi la copia stampata in mano non è come sembrava nel monitor: lo stampato lucido appare più finto, più “plasticoso”. La “uso mano” moderna invece è più economica ma tiene benissimo l’inchiostro; al tatto è più calda vellutata e porosa; ha una personalità fisica.
A tutti conviene la scelta più economica quando è anche la migliore qualitativamente; ma ancora di più a chi stampa contenuti ecologici o legati alle buone pratiche.

Grezza o sbiancata?
Nel processo “normale” la pasta di cellulosa si sbianca mescolandola con cloro e biossido di cloro: sono sostanze molto inquinanti perché entrano nel circuito dell’acqua provocando danni serissimi; inoltre se la bruci, produce diossina (fa venire il cancro e contamina le donne incinte generando malformazione nei feti). Come minimo occorre cercare il marchio ECF (Elementary Chlorine Free) che indica un minore impatto ambientale

L’alternativa è accettare il colore naturale della carta che è molto chiaro ma non perfettamente bianco. Tipo i libri antichi, per intenderci: è un difetto o una virtù?

Riciclata o di cellulosa vergine?

Si usa cellulosa vergine anche per la carta igienica, affinché il nostro delicato culetto non debba soffrire l’onta della carta riciclata. Bianco è il colore della purezza: mica potete sporcare di maron una carta che è già marroncina! Pazzesco. Ma ora stiamo parlando d’altro: su cosa stampare?
L’industria cartiera ha sparso la voce che la carta ecologica consumerebbe più energia e inquinerebbe di più della carta tradizionale. Sono balle in malafede: Legambiente ha calcolato che per ottenere 1000 kg di carta vergine occorrono 15 alberi, 440.000 litri d’acqua e 7.600 kWh di energia elettrica. Per produrre carta riciclata invece zero alberi, 1.800 litri d’acqua e 2.750 kWh. Il problema serio è evitare lo sbiancamento a base di cloro, cioè scegliere un’estetica che ne valorizzi il colore opaco e granuloso invece di volere la bianchezza “igienica”.

 

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