Libri sullo smarketing

I dinosauri si sono estinti, le formiche no.

Author: Marco Geronimi Stoll (page 6 of 6)

9 L’impresa col senso del limite è quella che sta meglio

Chi promette crescita produce debito e crisi.

Serge Latouche

Quando parliamo di decrescita, ovviamente, non diciamo che un’azienda non debba crescere.

Come un bambino, certo che deve crescere; ma solo fino ad una certa dimensione ottimale per non essere:
– né sottodimensionata, cioè fragile, marginale, sconosciuta, con competenze troppo generiche e tuttiste, poco capace di acquistare abilità nuove, ricattabile dall’umore volubile di pochi clienti…
– né sovradimensionata quindi frammentata in settori troppo specializzati e incomunicanti, capace di ragionare solo su dati quantitativi (quello che si può misurare coi numeri è solo una parte di quello su cui occorre pensare) e rischiosamente dipendente da logistiche complesse.

Chissà perché tanti imprenditori corrono verso indebitamento cronico, leasing onerosi per i macchinari, complicazioni logistiche sempre imprevedibili, assunzioni precarie di persone che saranno licenziate prima di acquisire delle abilità, capannoni e magazzini sempre troppo grandi o troppo piccoli, venditori che non riesci a controllare (e chissà cosa promettono al cliente…). E, naturalmente, forti spese di marketing.

Quanto più è instabile l’equilibrio nella contingenza economica, quanto più occorre essere poco sbilanciati.

L’azienda sta bene se l’organizzazione interna tiene l’equilibrio.

L’imprenditore piccolo non vuole stare nel toboga di questi anni.
L’equilibrio si gioca continuamente nella reciproca correzione tra le piccole disarmonie delle diverse parti dei sistemi della qualità ( CQ e CSR). In questo caso produce e vende il giusto, con una sufficiente capacità elastica di aumentare o diminuire un pochino secondo le contingenze, ma restando in una media di crescita zero e accumulando finanziariamente solo quel minimo che basta a tollerare perturbazioni o incidenti.

Crescere non significa solo mangiare di più ma anche essere prede migliori: i pescecani (che siano banche, multinazionali o, più spicciamente, le mafie), sono lì che aspettano: certamente preferiscono mangiarsi un branzino che una sardina.

Il problema dell’esposizione eccessiva con le banche è tipica dei due estremi, troppo più piccoli o troppo più grandi della dimensione ottimale; capita in in ogni posto del mondo ma in Italia, con le banche parassitarie e sleali che abbiamo, è più pericoloso. Junus e la Grameen Bank hanno dimostrato che il debitore migliore per una banca è una donna povera del Bangla Desh: statistiche alla mano con lei è molto più sicura la meticolosa restituzione del prestito che con un affarista di Wall street. Ma, ci scommetto, la vostra banca non la pensa così.

Anche per questo è meglio crescere solo fino alla giusta via di mezzo. Come il bambino quando è diventato adulto, crescita zero: sarà il momento di smettere di espandersi in dimensioni e piuttosto evolversi in organizzazione interna e in capacità di scambio: mettere insieme il suo sapere e il suo fare in un saper fare. È un processo, non una meta. A quel punto è l’ora di fare figli: interagire nel mondo e favorire la generazione di nuove aziende con lo stesso spirito: libere, leali ed autonome. Come un bosco sano, che cresce continuamente ma resta sempre uguale.

Obesità: eliminare la crescita superflua

Quando il buon senso riesce a far breccia, quello che un giorno prima sembrava ingenuo o estremista, diventa rapidamente mainstream. Perfino il Sole 24 ore ha cominciato a dedicare pagine e pagine ai G.A.S. , all’efficienza energetica o ai mercati di fattoria; ricordate pochi anni fa qual’era l’opinione di quella parte? Oggi organizzazioni come la Coldiretti dichiarano che l’unico scampo per i piccoli produttori è la qualità della filiera, meglio se corta e tracciabile.
Sarà capitato anche a voi di andare in un buon ristorante Slow Food e vederci l’industrialotto, il politico o il giornalista di chiara posizione liberista intento a discettare sull’aroma di quel raro caprino delle langhe o di quel vino biodinamico maremmano. Ci basta? direi proprio di no.
Le trentanove organizzazioni che hanno generato la Città dell’Altra Economia a Roma, nella loro Carta dei Principi, elencano sette parole-insegna: reciprocità, pariteticità, cooperazione, solidarietà, trasparenza, inclusione e partecipazione.
Questa è ingenuita? radicalismo? No, è solo buon senso.
Dice Serge Latouche:1 Non uso mai la parola decrescita per parlare la recessione, di cui al massimo si può dire che è una decrescita forzata. Perché la decrescita non è la “crescita negativa”, che in una società basata sulla crescita la è cosa più terribile al mondo (perché fa aumentare la disoccupazione, non ci sono più le risorse per pagare la salute, l’educazione, la cultura ecc.). Questa è appunto la situazione tragica che viviamo oggi. Per questo dico sempre che non c’è niente di peggio di una “società di crescita” senza crescita. La società di crescita con la crescita all’infinito ci porta direttamente a fracassarci contro il muro dei limiti del pianeta, ma la società di crescita senza crescita porta alla disperazione. Per questo dobbiamo uscire da questa logica, dal paradigma della crescita per la crescita infinita… Almeno il progetto di decrescita può creare la speranza e andare verso quello che il mio collega inglese Tim Jackson chiama “una società di prosperità senza crescita” e che io preferisco chiamare una “società di abbondanza frugale” (che sarà il titolo del mio prossimo libro che uscirà in gennaio 2012)

1L’intervista a Rai3 è sbobinata su www.democraziakmzero.org 31 dic 2011

8 Pubblicità, lingua matrigna ?

Somigliamo a un contadino dell’ottocento, che capiva gli ordini dei padroni in italiano, ma sapeva rispondere solo in dialetto.
La differenza nella capacità linguistica separa chi comanda e chi obbedisce.

Succhiata come il latte

La pubblicità si atteggia a scienza difficile che appartiene a pochi guru, ma non è vero; tutti noi, in quanto riceventi, ne conosciamo benissimo ogni sfumatura; il problema è che si tratta di una competenza passiva.
E’ un linguaggio che assimiliamo come una lingua materna, contate quanti spot subiamo ogni giorno fin da bambini. Aggiungete i segni che invadono il nostro territorio, il nostro paesaggio quotidiano. Fin da piccoli i marchi hanno conquistato il nostro tempo e il nostro spazio e li impegnano con seduzioni potenti ed immaginifiche.
Quando si dice “lingua materna” intendiamo un sapere collettivo, la somma di impronte depositate in ciascun cervello. Però se fosse una comune lingua verbale, come ad esempio l’italiano, ci sarebbe la parole di ciascuno: l’aspetto individuale e creativo del linguaggio che dipende dal singolo individuo, “atto di volontà e intelligenza” (cercate su Wikipedia: Lingua_idioma o De Saussure).

Lingua matrigna

“Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera” ha detto Tahar Lamri (in italiano) in una bella conferenza a Mantova Letteratura. È la condizione degli scrittori di popoli colonizzati e migranti, che scrivono libri nelle lingue europee e non nelle proprie.
Si può pensare nella stessa maniera per noi rispetto alla pubblicità? Vedo un’immensa ricchezza in quelle forme d’arte che si impossessano dell’advertising e ne sovvertono senso e scopi: gli artisti pop, i rapper, i graffitari, i videomaker, i mediattivisti, tutti coloro che alterano, mescolano, smontano e rimontano, storpiano i frammenti di tutti quei sogni artificiali di opulenza, cibo, sesso, status symbol e li trasmigrano in nuove forme di arte metropolitana, nuovi linguaggi, nuove soggettività.
Abbiamo cominciato pensando al contadino che parlava solo dialetto; “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, diceva Pasolini nel ’51; oggi chi s’è inurbato il dialetto l’ha perso, e con esso la padronanza cognitiva delle cose.
Che nascano nuovi slang metropolitani è meraviglioso, anche se i puristi l’hanno a lungo considerata sottocultura. Che ne nascono di tecnologici e crossmediali è intrigante, sicuramente divertente, probabilmente importante.
È l’alfabeto nascente dei contenuti generati dall’utente, la nuova lingua digitale che parleranno i nostri nipoti, volgare quanto lo era il volgare per Dante. È bellissimo che l’uomo riesca a generare intelligenza e senso anche nelle situazioni più desolanti: succede a chi è in una buona rete sociale o ha sufficiente forza culturale, morale o psicologica. E gli altri?

Diventiamo noi il prodotto

Gli altri, provvisti di una dose inferiore di cultura e grinta, gradualmente subiscono una lenta transizione da cliente a merce.
Non è come la metamorfosi di Kafka, non ti sveglierai una mattina scoprendo di esserti trasformato in una sottiletta. È una mutazione lenta che comincia nell’infanzia e ci porta in età adulta a giudicare noi stessi e a pianificare il nostro comportamento sociale comportandoci da prodotti e paragonandoci ai cliché e agli standard della pubblicità televisiva.
Se sei debole culturalmente o sei molto giovane, senza particolari anticorpi culturali o psicologici, ti guardi allo specchio e ti chiedi subito come sei messo a pancetta, tette, capelli… cioè che merendina sei nel mercato della stima, della visibilità e dell’affetto. Se esci con gli amici non ti vesti, ti travesti da chi vorresti essere. Nel dialogo magari ripeti le battute e dei salotti televisivi… ti guardi intorno e ti chiedi che share hai, se ti vendi bene al tuo pubblico. Se ti senti un prodotto mediocre, te ne stai in disparte.
Non sai cosa siano il tribal marketing o la brand experience ma li pratichi inconsciamente: tu sei il tuo brand nel mercato dell’attenzione. Peccato che sei solo un sottoprodotto: che desolazione.

Calciatori e veline

Quando i bambini dicono che da grandi vogliono fare i calciatori o le veline, voi pensiate che siano stupidini; no, purtroppo: hanno imparato come gira il vento dalla più potente agenzia educativa che non è la scuola o la famiglia ma la TV. Chi sta là dentro, nel piccolo Olimpo dello schermo, viene visto, dunque è vero; noi non siamo visti, quindi il mondo fasullo è questo al di qua dello schermo.
Lo sa ogni maestra che si vede una ventina di figli unici poco ascoltati (anzi, ora sono diventati 28 per classe) ciascuno con un disperato bisogno di essere visto individualmente: quante bizze, performances, trasgressioni, frigne, provocazioni per guadagnarsi uno scampolo di visibilità. E’ un tema che io chiamo sindrome del bambino trasparente ed ho trattato in altre pubblicazioni (se a qualcuno interessa, basta googlarlo).
Se restano culturalmente deprivati, gli unici strumenti linguistici che possiedono appartengono a questa lingua catodica: diventare personaggi, cioè non persone ma prodotti. Gustavo Zagrebeklsky dice “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità” (googlatelo con la parola chiave biennaledemocrazia).
Io propongo di mettere questo concetto accanto a quello del lutto per la mancata visibilità: nel ’68 Andy Warhol aveva promesso che avremmo avuto tutti 15 minuti di fama mondiale. Chi s’è fregato i 15 minutes of fame di questi ragazzi?

7 Critiche specifiche al marketing

Parole estranee all’uomo, come a un gatto la qualità dei suoi peli, sono comodamente installate nella nostra memoria, parole che ci danno la caccia, tiranne.
Ma c’è anche la parola che ci salva. È sempre una di quelle per cui ci si suicida.

Edmond Jabés

Siamo abituati a credere che la fabbrica sia una cosa concreta, materiale, “strutturale”e che invece il gusto con cui i clienti scelgono appartenga alla sfera del pensiero, delle“sovrastrutture”.
No, da tempo il marketing fa il market, non viceversa; marketing è il participio presente di to market. Ricordatevene tutte le volte che trovate frasi come “mettersi sul mercato”, “la legge del mercato”: a parte le apparenze, il marketing è la struttura (definisce i rapporti di forza e i meccanismi), il mercato è la sovrastruttura, l’ideologia. Resta ideologia anche quando si materializza in milioni di container cinesi, in file di tir puzzolenti, in faraonici centri commerciali che dissestano il paesaggio.

É una forma di colonialismo

Forse diciott’anni di berlusconismo sculettante ci hanno fatto idealizzare la situazione oltralpe, ma l’ordine mondiale è nelle mani dei brand, che spesso contano più degli stati; il mondo è sempre più diviso in produttori poveri che lavorano a due dollari al giorno e consumatori occidentali semi-disoccupati la cui missione nella vita è comprare robaccia fabbricata da altri.

Ha lo scopo ignobile di vendere troppo

Siamo vicini al picco del petrolio e di molte altre materie prime. Il cambio climatico promette cataclismi immani. Vendere roba inutile è come offrire un litro di rosso a un anziano con la cirrosi epatica: se ha una dipendenza, certo che gli piace.
Per la nostra dipendenza, hanno sostituito il medico con l’oste: ripete la sua ricetta medica dalla TV decine di volte ogni sera. Tutta la catena del marketing ( non solo l’advertising, anche branding, naming, pricing, packaging, placing, perfino il costumer care,… ) ha per scopo convincervi a spendere i vostri soldi per comprare roba quasi sempre inutile, per la quale si spreca energia e materia e che inquinerà anche dopo, nello smaltimento.
Con lo smarketing vogliamo riprenderci quel surplus economico oggi sprecato in materia ed energia e indirizzarlo verso il benessere reale e la convivialità.

Allunga la filiera e sovraccarica il costo delle merci

Per noi il mestiere del pubblicitario può essere morale solo se accorcia la filiera, solo se attraverso la comunicazione riduce i costi economici, ecologici e umani nel processo tra lavoro e consumo.

Separa essere ed apparire

Il primo mestiere del marketer è donare una personalità a oggetti insignificanti e anonimi. A cibi industriali, vestiti di pessima stoffa, suppellettili tutte simili vengono dati un nome, un colore, un carattere… quella cosa chiamata brand. Nel mercato di massa avere un buon brand è fondamentale; che sia buono il prodotto, invece, è poco influente.
Voi, “piccoli e buoni” che leggete questo manuale, avete l’esigenza opposta, avete già una personalità singolare nonostante un mondo che cerca di omologarvi; dovete narrarla, renderla chiara e trasparente. Non è una strada simile o parallela al marketing, è esattamente la stessa strada percorsa nella direzione opposta, con gli scopi opposti.

Ci condiziona ad essere insaziabili

Una persona soddisfatta compra il minimo indispensabile. State una settimana in natura lontano dalla TV: scoprirete che non vi serve quasi niente, le cose importanti della vita sono gratis.
La nostra capacità di essere felici è il vero problema del marketer, quindi si spendono miliardi di dollari per impedirla. L’advertising ci programma per guardarci allo specchio e sentirci brutti, girare per strada e sentirci mal vestiti, sentirci affamati benché sazi, aver sempre più voglia di essere eccitati, desideranti, somigliare a qualcun altro; sentire sempre che ci manca qualcosa; come se la città, la casa, il corpo fossero un enorme carrello sempre troppo vuoto. Siamo ancora capace di uscire la sera e incontrare gli amici senza dover spendere qualcosa da qualche parte, senza dover consumare?

Rende l’azienda sorda

Se un soggetto (ente, azienda, associazione) appalta al marketer la progettazione dei suoi output, difficilmente avrà i canali aperti per ricevere input e scambiare comunicazione colla propria clientela.

Consegna i tuoi soldi a chi li usa per comprare i giornalisti

Per noi non è indifferente il mezzo su cui paghi un’inserzione. Specialmente essendo in Italia, dove i giornalisti possono far carriera comoda solo autocensurandosi o vendendosi ai potenti.
Anche per questo, ma non solo per questo, siamo convinti che chiunque canti fuori dal coro debba cercare altre voci fuori dal coro e cambiare musica: se devi scegliere una radio, un giornale, una rivista… scegli chi ti somiglia e, tra le altre cose, incontrerai il lettore, l’ascoltatore che cerca te.

La merce diventiamo noi

È un meccanismo linguistico, la pubblicità è una lingua che capiamo ma non parliamo.
Chi di voi insegna lo vede in classe, dalle materne all’università, spesso anche dal nido: la pubblicità è talmente una lingua che i giovani stessi si conformano a merce.

Il prossimo capitolo tratta esattamente di questo.

6 Schioppi contro carri armati

“Non è possibile fare la guerra in questo schifo!”
nel film Lebanon, pronunciata da uno dei militari nel tank

Volantini contro televisione

Ho già usato la metafora dei “partigiani della comunicazione”. Merita alcuni approfondimenti.
Pensate ai partigiani veri, coi loro fuciletti, quando vincevano sui panzer tedeschi per agilità fisica, mentale e logistica. Voi dovete competere, con qualche foglietto in bassa tiratura o con un blog fatto in economia, contro l’impero della televisione, che prende almeno 3 ore al giorno al 95% di noi italiani, manipolando il concetto di “normalità”, l’idea del mondo e la stessa immagine che ciascuno ha di se stesso.

La forza della TV non è la sua potenza di fuoco

La forza del carrarmato sembra tutta nel suo cannone, ma ovviamente non è nella capacità di offesa ma nella sua inespugnabile corazza di difesa che fa rimbalzare le pallottole dello schioppo. Però la corazza lo rende pesante, miope e lento di riflessi.
La TV sembra leggera ed agile perché viaggia via etere e ci nutre di effimero; in realtà è un pachiderma obeso, vecchio e ripetitivo.
In Rai e in Mediaset (se non mi credete, chiedetelo a chi ci lavora) un buon 70% dello sforzo mentale è dedicato a sopravvivere negli equilibri di potere interni.
Il 20% è dedicato a tentare capire cosa succede fuori: i sensi del pachiderma sono approssimativi. I numeri ( share, ascolto medio, auditel…) ormai sono una “non-sineddoche”, cioè un frammento che non somiglia affatto al tutto e ti lascia intuire che le cose importanti avvengano fuori dal periscopio, come i visori del tank nel film Lebanon.
Resta un 10% di tutta la fatica erogata per cercare di fare il proprio mestiere, ma coi riflessi lenti in un medium che, invece, per fare cultura di massa in una società che cambia in fretta, dovrebbe essere rapido e sperimentale. È evidente che il risultato tende ad essere ripetitivo, prevedibile: la clonazione dei format, propri o altrui: quelli che hanno funzionato e che quindi si presume funzioneranno all’infinito.

La prepotenza è goffa per sua natura

Nei golpe degli anni ’60 e ’70 si usavano ancora i carri armati: un solo carro armato può sterminare una piazza piena di manifestanti, ma anche allora bastava scappare nei vicoli stretti o lanciare qualche bottiglia di benzina da una finestra: agilità mentale e logistica. Lo si è visto recentemente nella cosiddetta “primavera araba”, dove ha fatto irruzione la crossmedialità telefonino + internet.
La prepotenza fisica militare fa male, può provocare enorme dolore, tuttavia è goffa e miope per sua natura. Infatti la prima cosa che facevano i carri armati in un golpe, prima ancora che prendere il parlamento, era prendere la televisione.

Vuoi un altro cucchiaino di questa deliziosa merda?

Dagli anni ’80 con la tv commerciale è diventato molto più facile controllare il consenso: telenovele, sport e qualche bella figliola che danza discinta; fa tutta un’altra impressione qualche natica nuda, rispetto al sangue sull’asfalto. È più gradevole perché te ne stai in poltrona; col corpo stravaccato e sonnacchioso, il cervello rumina tutto quello che gli danno.
La prepotenza comoda, di cui la vittima in pantofole è inconsapevolmente complice, è meno goffa? Dopo trent’anni di questa televisione forse sarebbe il caso di dire di sì: ad esempio per la rappresentazione del femminile che spregia il corpo delle donne ed il cervello degli uomini. Però affermarlo sembra un po’ “vetero”: generico, velleitario; anche bigotto. Perché?

Mediocrazia è una parola ambivalente: potere dei media e potere dei mediocri. Sicuramente è un potere che si basa sulla scarsa reattività, sulla non indignazione. Passioni timide, uggia facile, pregiudizi su tutti e su tutto: dal buon senso si è passati al cattivo senso comune: è un prodotto di marketing pianificato a tavolino e ha regole facilmente riconoscibili (il piacere di spararla grossa, il compiacimento pseudo-trasgressivo delle parolacce, i litigatoi pseudopolitici,…).
Mediocri-mediatiche le regole, i valori e i modelli di organizzazione. Per non parlare dello spessore umano degli attori. Il culo che ha governato il Paese per vent’anni non è quello della ventenne che si dimena davanti alla telecamera, né l’isomorfa faccia di molti politici; è il nostro, sul divano.

Disintossicarsi

Quando un partigiano conquistava un carrarmato, non se ne impossessava anche se, apparentemente, sarebbe stata la soluzione per pareggiare la potenza di fuoco.
Invece ci buttava una bomba a mano, si limitava a metterlo fuori uso, perché avere un carro armato significa dipendere: dal carburante, dal munizionamento, dalle strade, dai ricambi… insomma perdere l’agilità di chi sta sulle montagne.
Analogamente per voi avere uno spazio in TV o trovare un grosso budget per fare la grande pubblicità potrebbe sembrare una soluzione per pareggiare la potenza di fuoco. Invece creerebbe dipendenze: logistiche, tecniche e professionali in un sistema fatto per permettere ai pesci grossi di mangiarsi te e tutti quelli come te.

Da cosa è nato il libro

Scrivo i materiali per questi libri tra luglio 2010 e marzo 2013 dopo quasi cento tra corsio e laboratori di smarketing in tutta Italia.
Tranne casi particolari si è trattato di weekend intensivi in forma di maratona.
Coloro che si sono iscritti, pur non essendo professionisti della comunicazione, devono far fronte adeguatamente a sfide quotidiane da cui dipende il successo/insuccesso di azioni, eventi o iniziative:

– redazione di testi per la carta e/o per i blog,

– impaginazione e duplicazione di cartaceo in self print (cioè duplicato in casa con una comune stampante laser) o stampa low budget, affrontando questioni di tipo testuale, estetico, grafico, economico, strategico e di gerarchia logica

– esercitare scelte creative o redazionali, in comune con altri

– scegliere nomi ed eventualmente marchi di iniziative, eventi o piccoli prodotti, distaccandosi dalle retoriche e dagli stili che il marketing tradizionale utilizza per i prodotti industriali

– contribuire a blog o social network anche senza essere particolarmente “smanettoni” e, a volte, senza essere molto propensi (per indole, dieta mediatica o età) a questi nuovi mezzi

– ideare iniziative eventi o altri accadimenti (culturali, sociali, artictici, politici, sportivi…)

Molto spesso queste esigenze implicano un’altra abilità da acquisire: quella di facilitatore della comunicazione interna. Ci sono molti casi in cui all’interno di un’organizzazione medio-piccola (un ente pubblico, una cooperativa di almeno qualche decina di soci-lavoratori, un’azienda familiare…) c’è qualcuno che si occupa della comunicazione verso l’esterno che lamenta difficoltà dietro le sue spalle, nella comunicazione con l’interno della propria realtà. Spesso il corso raccoglie le esigenze di queste persone, abbandonate a sé stesse, con scarso feed-back dai propri capi, non di rado vincolate a fare controvoglia comunicazioni ripetitive, mediocri e conformiste.

Senza la pretesa di fornire in due giorni delle competenze specialistiche, il corso permette di riconoscere quegli errori più diffusi che troppo spesso impediscono una buona comunicazione.

I corsi funzionano quando aiutano ciascuno a comprendere le più semplici ma essenziali questioni di grammatica e sintassi: di ritmo comunicativo, di gestione dell’ingombro, di chiarezza di una spiegazione, di capacità di essere interessanti.

Il programma tipo si può trovare sul sito corsi.smarketing.it (senza il www).

3 La rete smarketing°

In fondo al libro è riportato questo capitolo sulla nostra rete.

La rete smarketing

Alla fine di questo libro avete diritto di sapere come passiamo dalle idee alla pratica.
Non vogliamo essere un marchio che attesti l’“eticità” di una comunicazione. Non siamo un brand, semplicemente usiamo il nostro nome per firmare quello che facciamo (questo libro, corsi , campagne…).

Anche se l’idea di base e il nome nascono negli anni 90, e con essi vari concetti teorici e molti spunti operativi, è solo dal 2009 che c’è una rete di professionisti che li sperimenta sistematicamente su scala sufficientemente ampia. Anche molti mezzi che oggi adottiamo, a partire dal web 2.0, sono recenti. Quattro anni sono il minimo per il riscontro effettivo dell’efficacia in lavori che chiedono qualche anno per compiersi. Chiedono tempo anche le sperimentazioni empiriche e le decisioni partecipative (non votiamo a maggioranza, sulle scelte importanti dobbiamo essere tutti d’accordo).

Quello che segue è una prima sintesi, ma per una questione di onestà intellettuale tenete presente che siamo sempre in un processo evolutivo; su www.smarketing.it potrete leggere come continuiamo: alle parole devono seguire i fatti e anche viceversa, perché come ogni artigiano “pensiamo con le mani”, quindi il fare concreto è parte importante dell’elaborazione di una teoria.
Attualmente siamo in sette; dopo aver studiato varie ipotesi (cooperativa, associazione, studio associato) abbiamo scelto la soluzione più pratica e anche la più semplice: ognuno ha la sua partita IVA e lavoriamo in rete.
Ci diamo alcuni principi ideali e delle regole concrete, per metterli in pratica.

I principi ideali

Lealtà col cliente: significa anche
• incoraggiarlo a far da sé la parte basica della comunicazione, se possibile
• pianificare la comunicazione per fargli spendere il meno possibile
• rispondere personalmente dei risultati effettivi
• tentare di collaborare, senza competere/confliggere, con eventuali suoi tecnici locali
• non subappaltare mai il nostro lavoro a terzi

Lealtà tra di noi: rapporti paritari e non gerarchici (neanche per età, fama o esperienza)
Si accettano solo clienti che rispettano i diritti dei lavoratori, l’ambiente, che dichiarano un codice di comportamento (e lo rispettano).
Ciascuno di noi rifiuta di ricevere o dare lavoro subordinato precario, inclusi gli stage.
Siamo attenti il più possibile a ciò che accade intorno, tecnicamente e culturalmente.
Crediamo nella condivisione del sapere e la pratichiamo
Cerchiamo di dare importanza alla comunicazione informativa sulle qualità del prodotto rendendo più competente chi compra.
Cerchiamo di accorciare la filiera tra produttore e acquirente.
Condanniamo il green washing, quindi rifiutiamo qualsiasi cliente che abbia una pratica generale aziendale criticabile sul piano ambientale, anche quando ci volesse coinvolgere in sottosettori o branche con appeal ecologistici. La stessa cosa per quanto riguarda i temi sociali, culturali o terzomondisti.

Lo smarketing è un processo ideale, non un’ideologia, quindi:
• Per il professionista lo smarketing è un processo di liberazione verso il momento in cui potrà lavorare esclusivamente con clienti non profit e in le forme di economia “altra”.
• Nel percorso, ciascuno di noi resta libero di decidere se accettare o no clienti convenzionali (all’esterno dal proprio rapporto con la rete), ad esempio in caso di necessità economiche o di particolari occasioni di crescita professionale. Da questo principio di tolleranza sono escluse aziende o organizzazioni che abbiano comportamenti criminali o gravemente antietici.
• Per il cliente lo smarketing è un processo di liberazione dall’esigenza di fare pubblicità commerciale tradizionale o di sottostare ai vincoli della grande distribuzione. Il nostro compito è dargli suggerimenti e strumenti per farlo; dopodiché lui è libero di scegliere ciò che sa, può, vuole fare: in ogni caso dovrà adottare semplici strumenti per misurare l’effettiva efficacia dei risultati e valutarne gli esiti insieme a noi.

Non può entrare nella rete un professionista che
• assume sottoposti con contratti non continuativi o accetta stagisti.
• accetta di essere pagato “in nero” anche parzialmente.
• non dedica almeno il 20% del tempo annuo a formazione, aggiornamento o esperienza con nuovi strumenti.
• rifiuta una concezione condivisa della proprietà intellettuale.

Il piano pratico

Prima di cominciare qualsiasi lavoro verifichiamo se e come siamo necessari, erogando al cliente una consulenza a prezzo politico di poche ore; vediamo insieme sito, cartaceo, IC, strategie; la nostra valutazione e i nostri consigli gli permettono di decidere cosa fare avendo più chiari i punti di forza/debolezza, i costi possibili di diverse soluzioni, cosa può fare da sé, cosa con noi, cosa con suoi eventuali tecnici locali o abituali.
Dopo questa consulenza il cliente può decidere di attribuirci un incarico professionale. In questo caso si redige un protocollo di reciproca fiducia tra professionisti e cliente (una dichiarazione di intenti e metodi già “collaudata su strada” coi clienti precedenti) che tutti sottoscrivono.
I preventivi sono trasparenti, in essi è esplicitata la mansione, il compenso e la tempistica di ciascun professionista. La cifra del preventivo corrisponde a quella finale, senza aumenti in corso d’opera, se non per mutate richieste del cliente o per motivi oggettivi e condivisi.
L’incarico di solito definisce quale parte del lavoro dev’essere erogata direttamente dal professionista e quale sarà oggetto di formazione o affiancamento perché la struttura del cliente possa gestirselo direttamente; anche la cura di questa graduale la transizione dal lavoro esternalizzato al lavoro interno spesso è parte dell’incarico.
Non si accetta la tradizionale percentuale da parte delle testate che pubblicano inserzioni a pagamento o dalle loro concessionarie: siccome ne suggeriamo alcune invece di altre, assumendoci un ruolo arbitrale di consulenti terzi, ciò produrrebbe un conflitto di interessi. Chiediamo alle testate che la provvigione sia convertita in uno sconto per il cliente.
Al cliente si suggeriscono solo i lavori che gli sono necessari, senza accettare, e tanto meno sollecitare, la commessa di lavori a nostro avviso inutili, anche qualora fosse per noi conveniente.
Si persegue l’autonomia del cliente e la si facilita, nei limiti della sua disponibilità personale, tecnica e organizzativa.
Si aiuta il cliente a ridurre le esternalità negative (es. spreco di carta).
Si incoraggia il cliente che non lo fa a sviluppare protocolli di CSR.
Ci piace il baratto e lo scambio merce, purché rendicontati.
Il cliente non ha sempre ragione: quando le sue richieste ci paiono tecnicamente poco efficaci o controproducenti, glie lo diciamo e lui è tenuto a confrontarsi: altrimenti tradiremmo la sua fiducia.
A proposito della comunicazione elettorale, o comunque politica, la rete non è neutrale: si schiera con nettezza verso la tutela del lavoro, dell’ambiente, della cultura, dei beni comuni e dei diritti civili; non si schiera però con questa o quella specifica parte perché persegue in ciascuna di esse un aumento della democrazia interna, della capacità di ascolto, della trasparenza e dell’interlocuzione con la propria base. Per questo non accetta specifiche campagne per un partito o un candidato, ma forma gruppi di attivisti e volontari verso una comunicazione efficace, nei diversi territori per qualsiasi partito o movimento nelle aree politiche interessate.
Stages: quasi sempre sono uno sfruttamento spregiudicato e anche una forma di diseducazione (viene inculcato un modo di lavorare parcellizzato, gerarchizzato, affrettato e alienante). Per il giovane professionista che vuole cominciare ci possono essere altri strumenti, come l’affiancamento congiunto a un suo primo cliente.
Account: sono quelle persone che in una grande agenzia mediano tra creativi e cliente, spesso spingendolo a spendere sempre di più. Noi non ne abbiamo. Questo elimina molti costi e ambiguità, ma anche sottrae un utile mediatore culturale tra cliente e noi. Ne consegue che senza account tutti dobbiamo essere più capaci di ascolto, capaci di mettersi nella mentalità dell’altro.

Come vogliamo lavorare

Vogliamo lavorare con soddisfazione umana, relazionale e creativa, seguendo le nostre aspirazioni personali e sociali, nel rispetto dell’ambiente e delle persone.
Pretendiamo di guadagnare lealmente il giusto, senza far male al mondo e aiutando produttori ed acquirenti a risparmiare soldi e risorse e a tessere rapporti più solidali e continuativi.
Vogliamo che il cliente paghi meno possibile; lo aiutiamo a risparmiare su molte spese di marketing abitualmente considerate indispensabili: usiamo poca carta, poche inserzioni, molti strumenti economici.
Per questo scopo la prima strada da seguire è rivolgerci a chi condivide lo stesso spirito e le stesse motivazioni. Insieme a loro vogliamo migliorare il senso comune e convincere il resto del mondo produttivo ad orientarsi verso valori etici ed ecologici.

2 A cosa serve questo libro

A che cosa serve

1. Spiegare che non basta essere buoni

La mente umana segue percorsi brevi: se il tuo volantino è pasticciato, tu sei pasticcione, A = A, è l’identità della logica formale.

Chiunque di noi vada a fiere come “Fa’ la Cosa Giusta!”o “Terra Futura” incontra centinaia di realtà che producono cibi squisiti, abiti stupendi, servizi intelligenti, tutto “buono” in senso ecologico, sociale, estetico.
Spesso però la comunicazione è un disastro. Anche per questo molti faticano a quadrare i bilanci.

È inutile essere “buono” se non lo sa nessuno.

Anche se hai un budget limitato per la comunicazione, non ti aiuterà essere schivo, comunicare in modo sbrigativo o trascurare il sito.
A maggior ragione se il tuo lavoro è innovativo o atipico e il tuo potenziale cliente è propenso a fare l’equivalenza tra la qualità della tua comunicazione e la qualità del tuo prodotto o servizio.
Un conto è pensare all’effimero fasullo della pubblicità tradizionale, un altro è che, se vuoi bene al tuo lavoro, vale la pena di raccontarlo con amore, gusto e pazienza.

2. Distinguere smarketing e marketing

Comunicare non significa affatto fare marketing.
Abbiamo lasciato che diventassero sinonimi, ma è come chiamare “addestramento” la scuola di Platone (non c’è maieutica senza scambio di disponibilità, fiducia e interazione). O definire “rancio” l’invito a cena d’una persona innamorata (se lei cederà al corteggiamento davanti alle linguine ai carciofi non dipende da un calcolo delle calorie ma dal calore emotivo della relazione, che attraverso la qualità del cibo, il vino e l’atmosfera il corteggiatore cerca di simbolizzare, non di surrogare).
Definire marketing la comunicazione dei “pesci piccoli” è un equivoco. In libreria, per esempio, sullo scaffale marketing, in mezzo a tanta fuffa troverete anche testi utili e intelligenti sul marketing sostenibile o sul web marketing minimalista (w002). Usano la parola marketing anche ove vengono suggerite garbate ed efficaci tecniche comunicative, condivisibili e adatte alle formiche.
Alcune tecniche sono simili a quelle suggerite da questo libro, ma la differenza è nello scopo: il marketing vuole vendere qualsiasi cosa più è possibile, lo smarketing vuole vendere la giusta misura di prodotti e servizi che rispettano l’uomo, l’ambiente e la società.

3. Passare dal vendere “più che si può” al vendere “il giusto a lungo”

Qui non troverete trucchetti per vendere tanto. Trovate se mai i mezzi per vendere il giusto, a lungo:
• fidelizzare in modo reciproco (voi e il cliente);
• mostrare la qualità in modo trasparente (diffondendo competenza sul vostro prodotto);
• accorciare la filiera (con internet ma non solo);
• abbattere in modo drastico il numero di inserzioni e spot (cercare pochi contatti ma buoni).
Le tecniche per vendere tanto sono uguali o diverse da quelle per vendere il giusto? Dipende, per certi aspetti sono simili e per altri sono diametralmente opposte: e tutto il libro ha lo scopo di dettagliare questo “dipende”.
Il marketing pretende di essere una scienza esatta, lo smarketing è solo un processo empirico che richiede di navigare a vista, senza una mappa univoca e definitiva (dubito che tale mappa possa esistere); sono “solo” buone pratiche, ma essendo state collaudate sul campo posso garantirvi che di solito funzionano abbastanza bene se si vuol vendere a lungo il giusto; abbastanza male per chi vuole fare tanto fatturato a qualsiasi costo e in fretta.

4. Identificare gli errori principali

Pochi errori molto frequenti costano ai “pesci piccoli” un sacco di tempo, denaro, complicazioni, demotivazione e insuccessi.
Sono errori facili da riconoscere, quando li commettono gli altri.
I mille piccoli bivi della comunicazione – una parola o l’altra, quale colore, quanto ingombro, quali bottoni nella home page? – sono un labirinto. Chiunque guardi dall’alto il labirinto altrui vede facilmente dove sbaglia strada; ma quando dentro ci sei tu è tutt’altra faccenda. All’inizio imbocchi i bivi e fai le scelte senza avere cognizione di causa, affidandoti al caso o ai luoghi comuni; poi scopri che cosa avresti dovuto tenere a mente per non perderti e da quali errori avresti potuto imparare qualcosa, ma ormai sei già irrecuperabilmente smarrito. Senza filo d’Arianna, credevi di essere Teseo ma diventi il Minotauro.
I piccoli minotauri smarriti sono troppi: volantini affollati, slogan criptici, grafiche cialtrone, siti incomprensibili… Ottime persone perse nel loro labirinto, al punto di confondere la loro stessa identità. Se passiamo da un’epoca di “delega allo specialista” a un’era nuova, a bassa delega, e in cui diventiamo tutti dilettanti competenti, risolvere questa limitazione è fondamentale.

5. Aiutare la democrazia e l’economia minuta

Se impariamo a fare una comunicazione “abbastanza buona” decuplichiamo la forza dei nostri volantini, siti, comunicati. L’effetto sarebbe che nel nostro Paese le brave persone che vogliono lavorare in modo pulito, con poca fatica moltiplicherebbero il proprio budget e il tempo di lavoro. Non è politica questa?

Allo stesso tempo si potrebbe abbattere drasticamente l’impatto ambientale della comunicazione.
Inoltre una comunicazione differente aiuterebbe la gran parte delle persone a liberarsi dal “senso comune artificiale” indotto dalla televisione e dal marketing. Anche questa è sicuramente politica.

Non so se questo sia un obiettivo troppo alto per questo libro. Forse è solo fiducia nelle idee semplici e soprattutto nelle cose che persone come voi hanno da dire. Propongo di partire dalla convinzione che, finora, troppo spesso abbiamo comunicato in modo dispersivo, autoreferenziale, provinciale, senza pensare insieme e dal basso: se non lo facciamo vincono i grandi persausori e il senso comune diventa sempre più uniforme.

6. Facilitare la trasparenza come metodo

Il nostro metodo sostituisce il “persuadere” del marketing con la capacità di “far parlare di noi”.
In pochi anni lo scenario è cambiato in modo radicale. Questo dovrebbe aiutarci.

Tutti i protocolli di responsabilità sociale dicono infatti che la trasparenza è un valore. Tutte le esperienze di comunicazione sui social media dimostrano che è meglio essere sinceri. Una comunicazione è trasparente se rende conto dei risultati reali conseguiti nella direzione degli scopi dichiarati.
Eppure molte organizzazioni storiche – associazioni, sindacati, Ong e altre – sono ancora “opache”. Le loro gerarchie sono spesso impegnate in giochi di potere e di carriera, clientele, nepotismo. Per quanto nobile sia il loro passato e numerosi i loro iscritti, queste sono diventate organizzazioni “a valorialità parassitata”.

I loro valori cioè sono sfruttati per fini impropri. Spesso saranno restie a mettere on line i bilanci economici o sociali ed eviteranno di rendere conto sui social media dei propri reali risultati. Al massimo proveranno a rendersi simpatici al “bar del marketing” con una vernice green o modernista e qualche pagina patinata, ma senza comunicare in modo reciproco con i propri stakeholder (dipendenti, clienti, fornitori, indotto, abitanti del territorio…) e senza mettersi in discussione.

Morale della favola? Non fate come i loro “capi” che non vogliono neppure sentire parlare di smarketing: alzano il telefono e chiamano un’agenzia, spendendo un sacco di soldi. Ma finiscono per raccontare – e male – solo la “favola della morale”.
E in un’epoca in cui la comunicazione non è più controllabile ma digitale e liquida, le bugie hanno gambe molto più corte: è più facile reperire informazioni e prendere la parola. La vecchia nomenclatura può solo rimandare il proprio crollo: peccato che più lo si ritarda più sarà doloroso l’esito per tutta l’organizzazione. Tenetene conto.

7. Liberarsi dal belining

È il participio presente del sostantivo genovese “belin”.
Durante uno dei corsi di smarketing per la Comunità di San Benedetto al Porto mi raccontarono questo episodio. Don Andrea Gallo, dopo aver ascoltato il briefing di un marketing plan (immagino zeppo di parole come vision, goals, numbering, targetting, branding…), si alza in piedi e chiede “ma alla fine cosa resta di tutto questo belining?” Anche a noi ogni tanto scappa qualche parola in gergo markettaro: è normale, è un linguaggio tecnico come tanti altri e molte di queste parole un significato effettivo ce l’hanno; ma abbiamo deciso di adottare belining per indicare il malcostume, ancora in voga, di nascondersi dietro queste espressioni per non dire nulla ed evocare in modo fumoso la presunta superiorità del tecnico.

1. Per chi è il libro Smarketing

Queste parole – o piuttosto simili – me le hanno dette centinaia di allievi dei miei corsi:
“Ho scoperto che comunicare bene non significa vendere fumo; prima credevo che fosse una cosa da furbi, per manipolare la gente”.

Se una tale ovvietà per così tanti di loro è stata una rivelazione, significa che l’equivoco è molto diffuso e radicato proprio dove si hanno molte cose da dire e pochi soldi per dirle.
Questo libro è per loro (per voi!): per i comunicatori di imprese e altre organizzazioni che nella loro “missione” perseguono valori sociali, culturali, ambientali e vogliono costruire una nuova economia di relazione, sobria e
solidale. Ecco un elenco non esaustivo:

Sul territorio

• agricoltori biologici, agriturismo
• mercati e organizzazioni di vendita diretta, gruppi d’acquisto solidali, cooperative di consumo
• piccola distribuzione organizzata, anche via web
• ristoranti a km 0, con l’orto, biologici
• operatori del turismo consapevole ed ecologico

Nelle istituzioni

• enti pubblici, piccoli e medi Comuni, singoli assessorati di quelli maggiori
• biblioteche, ludoteche, centri anziani
• associazioni e Onlus impegnate in prevenzione, solidarietà, integrazione, recupero sociale
• teatri ed enti teatrali locali
• parchi e oasi naturali, guide ambientali
• eventi culturali, fiere, festival

Nell’economia sociale e welfare atipico

• cooperative sociali piccole e medie di tipo A e B
• imprese non profit in altra forma societaria
• cohousing, cooperative di abitanti, autocostruzione
• circoli, centri sociali, luoghi di socialità, co-working
• locali privati con valori di tipicità, creatività, identità
• terapisti delle medicine alternative
• luoghi di meditazione, yoga, terapie corporee, shatzu
• erboristeria: produzione, distribuzione e vendita

Nell’artigianato manuale e creativo

• artigiani che perpetuano vecchie produzioni
• sartoria, critical fashion, artigianato calzaturiero,
• artigianato creativo del riuso
• artigianato digitale
• uso creativo di tecnologie digitali per la manipolazione dei materiali (taglio laser, stampanti 3D…)
• formatori in discipline diverse: ballo, cucito, cucina, autoproduzione, benessere…

Nelle piccole imprese culturali

• singoli artisti
• gruppi culturali, artistici o di divulgazione scientifica
• piccoli editori e microeditori cartacei e digitali
• compagnie e spazi teatrali, animatori drammaturgici
• orchestre, band, compositori
• scuole popolari di musica, cinema, teatro
• gestori di cinema d’essai, cineforum e simili
• videomaker
• tecnologie audio e video di produzione e post-produzione
• service per lo spettacolo

Nelle vecchie e nuove tecnologie energetiche e di mobilità

• bio-architetti, progettisti di efficienza energetica
• E.S.C.O., installatori di energia rinnovabile
• mobility management
• servizi di carsharing, bikesharing, pony express in bicicletta, ciclofficine

Nella democrazia di base

• gruppi di attivisti politici
• associazioni
• movimenti

Questo libro serve quindi in definitiva alle cosiddette “organizzazioni con motivazioni valoriali”.

Indice

L’indice del libro cartaceo

Premesse. Questo libro.

Capitolo zero

A che cosa serve
Per presentare questo libro
Da che cosa nasce
Per chi è
A che cosa serve

Capitolo 1. I partigiani della comunicazione

Come e perché disertare dal marketing
Il pubblicitario disertore
La narrazione delle mele
La crescita giusta
Elenco di scopi ovvi (e da ribadire)
Lo “starget” e il 5%
La banalità del tale e quale
Vivere senza marketing
Le armi dei partigiani della comunicazione
I territori da riconquistare
I volantini e la televisione
Ma che cos’è davvero il marketing?
Pubblicità, lingua matrigna
Il marketing ci fa sentire brutti
Un’impresa con il senso del limite

Capitolo 2. I dieci errori più frequenti

Come rendere disastrosa la vostra comunicazione
1. Come sbagliare nome
2. Come sbagliare dominio
3. Come sbagliare logo
4. Come sbagliare identità
5. Come rovinarsi la reputazione
6. Come “pessimizzare” i canali
7. Come sbagliare a scrivere
8. Come trovare scuse per non farsi aiutare
9. Come riempire tutto lo spazio
10. Come sbagliare materia

Capitolo 3. Istruzioni di base per dilettanti competenti

Come guardare le cose con occhi nuovi
Siate dei geni (dentro lo siete già)
Abilitatevi (riconoscetevi l’abilità)
Fate come l’albero (non come i mammiferi)
Siate estremi (minimi e massimi tecnologici)
Usate il copyleft
Copiate bene (lasciate che le idee vengano a voi)
Siate imperfetti (ma siatelo almeno in due)
Siate resilienti (né morbidi né duri)
Non lasciatevi disabilitare dai tecnici
Siate leali (è un affare)

Capitolo 4. Piccola cassetta degli attrezzi

Come funziona la comunicazione che funziona
Premessa
I fondamentali: siate chiari e leggibili
I fondamentali: parlate a pochi (ma buoni)
Altri fondamentali per una comunicazione che funziona
Siate empatici
Fate immaginare un mondo
Siate reciproci
Evitate il rumore
Generate le vostre parole cornice
Guardate in faccia i pregiudizi
Siate “speciali”
Raccontate una storia
Parlate in lingua orale
Diventate un mito, ma minuscolo
Pensate al web come al teletrasporto
Cambiate il mondo (twitter non lo fa per voi)
La comunicazione eccellente non esiste

Capitolo 5. Soluzioni pratiche per piccoli budget

Come usare al meglio gli strumenti a disposizione
Logo e brand
L’immagine coordinata
Come offrire il web ai teletrasportati
Sommate l’effetto di diversi media
Usate bene un evento
Come usare abbastanza bene l’e-commerce
Di quale “tecnico” fidarsi
Come usare le inserzioni (poche e partigiane)
Fare un volantino (ma sarà efficace?)
Conclusioni: la comunicazione fai da te

La rete smarketing°

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