Chi promette crescita produce debito e crisi.

Serge Latouche

Quando parliamo di decrescita, ovviamente, non diciamo che un’azienda non debba crescere.

Come un bambino, certo che deve crescere; ma solo fino ad una certa dimensione ottimale per non essere:
– né sottodimensionata, cioè fragile, marginale, sconosciuta, con competenze troppo generiche e tuttiste, poco capace di acquistare abilità nuove, ricattabile dall’umore volubile di pochi clienti…
– né sovradimensionata quindi frammentata in settori troppo specializzati e incomunicanti, capace di ragionare solo su dati quantitativi (quello che si può misurare coi numeri è solo una parte di quello su cui occorre pensare) e rischiosamente dipendente da logistiche complesse.

Chissà perché tanti imprenditori corrono verso indebitamento cronico, leasing onerosi per i macchinari, complicazioni logistiche sempre imprevedibili, assunzioni precarie di persone che saranno licenziate prima di acquisire delle abilità, capannoni e magazzini sempre troppo grandi o troppo piccoli, venditori che non riesci a controllare (e chissà cosa promettono al cliente…). E, naturalmente, forti spese di marketing.

Quanto più è instabile l’equilibrio nella contingenza economica, quanto più occorre essere poco sbilanciati.

L’azienda sta bene se l’organizzazione interna tiene l’equilibrio.

L’imprenditore piccolo non vuole stare nel toboga di questi anni.
L’equilibrio si gioca continuamente nella reciproca correzione tra le piccole disarmonie delle diverse parti dei sistemi della qualità ( CQ e CSR). In questo caso produce e vende il giusto, con una sufficiente capacità elastica di aumentare o diminuire un pochino secondo le contingenze, ma restando in una media di crescita zero e accumulando finanziariamente solo quel minimo che basta a tollerare perturbazioni o incidenti.

Crescere non significa solo mangiare di più ma anche essere prede migliori: i pescecani (che siano banche, multinazionali o, più spicciamente, le mafie), sono lì che aspettano: certamente preferiscono mangiarsi un branzino che una sardina.

Il problema dell’esposizione eccessiva con le banche è tipica dei due estremi, troppo più piccoli o troppo più grandi della dimensione ottimale; capita in in ogni posto del mondo ma in Italia, con le banche parassitarie e sleali che abbiamo, è più pericoloso. Junus e la Grameen Bank hanno dimostrato che il debitore migliore per una banca è una donna povera del Bangla Desh: statistiche alla mano con lei è molto più sicura la meticolosa restituzione del prestito che con un affarista di Wall street. Ma, ci scommetto, la vostra banca non la pensa così.

Anche per questo è meglio crescere solo fino alla giusta via di mezzo. Come il bambino quando è diventato adulto, crescita zero: sarà il momento di smettere di espandersi in dimensioni e piuttosto evolversi in organizzazione interna e in capacità di scambio: mettere insieme il suo sapere e il suo fare in un saper fare. È un processo, non una meta. A quel punto è l’ora di fare figli: interagire nel mondo e favorire la generazione di nuove aziende con lo stesso spirito: libere, leali ed autonome. Come un bosco sano, che cresce continuamente ma resta sempre uguale.

Obesità: eliminare la crescita superflua

Quando il buon senso riesce a far breccia, quello che un giorno prima sembrava ingenuo o estremista, diventa rapidamente mainstream. Perfino il Sole 24 ore ha cominciato a dedicare pagine e pagine ai G.A.S. , all’efficienza energetica o ai mercati di fattoria; ricordate pochi anni fa qual’era l’opinione di quella parte? Oggi organizzazioni come la Coldiretti dichiarano che l’unico scampo per i piccoli produttori è la qualità della filiera, meglio se corta e tracciabile.
Sarà capitato anche a voi di andare in un buon ristorante Slow Food e vederci l’industrialotto, il politico o il giornalista di chiara posizione liberista intento a discettare sull’aroma di quel raro caprino delle langhe o di quel vino biodinamico maremmano. Ci basta? direi proprio di no.
Le trentanove organizzazioni che hanno generato la Città dell’Altra Economia a Roma, nella loro Carta dei Principi, elencano sette parole-insegna: reciprocità, pariteticità, cooperazione, solidarietà, trasparenza, inclusione e partecipazione.
Questa è ingenuita? radicalismo? No, è solo buon senso.
Dice Serge Latouche:1 Non uso mai la parola decrescita per parlare la recessione, di cui al massimo si può dire che è una decrescita forzata. Perché la decrescita non è la “crescita negativa”, che in una società basata sulla crescita la è cosa più terribile al mondo (perché fa aumentare la disoccupazione, non ci sono più le risorse per pagare la salute, l’educazione, la cultura ecc.). Questa è appunto la situazione tragica che viviamo oggi. Per questo dico sempre che non c’è niente di peggio di una “società di crescita” senza crescita. La società di crescita con la crescita all’infinito ci porta direttamente a fracassarci contro il muro dei limiti del pianeta, ma la società di crescita senza crescita porta alla disperazione. Per questo dobbiamo uscire da questa logica, dal paradigma della crescita per la crescita infinita… Almeno il progetto di decrescita può creare la speranza e andare verso quello che il mio collega inglese Tim Jackson chiama “una società di prosperità senza crescita” e che io preferisco chiamare una “società di abbondanza frugale” (che sarà il titolo del mio prossimo libro che uscirà in gennaio 2012)

1L’intervista a Rai3 è sbobinata su www.democraziakmzero.org 31 dic 2011