Libri sullo smarketing

I dinosauri si sono estinti, le formiche no.

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Presentazione del libro al pubblico

Presentazione del libro
“Domani mi metto in proprio
come avviare la tua impresa
sostenibile e solidale”

Incontro con l’autore

 

Voleva solo essere un manuale. Ma mi è successo di mettere insieme le due questioni che ci assillano:
1. in tanti siete disoccupati, sottoccupati o precari,
2. manca un’economia sana, dove il lavoro valga, ricca di relazioni umane e valori non economici.

Due affermazioni così ovvie che sembra banali; ma questo è un manuale per fare davvero azioni concrete e pratiche, non un trattato. E allora ne esce il messaggio “si può fare”;  succede come al bambino che disse che l’imperatore è nudo,  nel suo piccolo questa prospettiva cambia tutto:  altro che diventare “padroncino” o “microcapitalista”, mettersi in proprio diventa un atto di ribellione.

Se venite parleremo insieme di quattro spunti:

1. Se rinunci ai tuoi sogni, tu diventi inutile

La prima cosa che vi dirò è questa: quando uno cerca lavoro, di solito, accetta di rinunciare a vocazioni, valori e aspirazioni. Questo sacrificio sembra un atto di realismo: “pur di lavorare, mi va bene tutto”. Ecco,  è un errore! così diventiamo tutti simili: prevedibili, omologati. Sostanzialmente diventiamo inutili, a noi e agli altri. Ed entriamo reciprocamente in competizione per lavori “qualsiasi”.

Propongo una strada molto diversa: creare piccole reti di persone che si mettono in proprio e insieme si mettono in filiera.
Così il denaro (almeno in parte) torna a circolare permettendo più sostentamento e più sostenibilità: etica, ambientale e sociale.
È facile? no, ma neanche così difficile; e comunque le solite strade per procurarsi lavoro non sono certo in discesa. Quindi vale la pena di fare lo sforzo per un risultato più soddisfacente, dignitoso e solido.

2. Un manuale è una bella storia

Un manuale pratico non è cosa poco “letteraria”, se può contenere la tua storia.  Leggerai cosa fare per seguire la tua vocazione, svilupparla evitando gli errori più frequenti, cogliere l’intuizione giusta e lavorare in modo affiatato con chi ti somiglia.
Troverai alcune raccomandazioni per cominciare col piede giusto e proseguire sulla strada meno faticosa: scegliere un bel nome, non fare debiti, selezionare dei tecnici abilitanti, fare rete, comunicare in modo onesto e chiaro. Leggerai la storia di chi ci è riuscito e anche quella di chi non ce l’ha fatta, imparando da lui alcuni errori da non ripetere.
Dirò anche di non cercare le opportunità occupazionali del territorio (che sono sempre più scarse), ma le sue lacune, scoprendo i tanti bisogni insoddisfatti che questa società ha bisogno di colmare. Spesso lì c’è un lavoro da inventare.

3. Meglio la bici di un SUV, specialmente se non c’è benzina.

Se cercate ricette miracolose per diventare ricchi, non è questo il libro per voi. Ce n’è tanti che vi promettono di “essere vincenti” “sbaragliare la competizione” “essere il brand di te stesso”…
Serviva un libro diverso, che parlasse di rete e filiera, che non ti facesse rischiare di lavorare tutta la vita per le banche, che non incoraggiasse il cannibalismo competitivo dove ci si mangia a vicenda. Che non dimenticasse che siamo in tempi difficili.

Eccolo, visto che ho aiutato a nascere (con gli amici di Rete Smarketing) varie piccole imprese a carattere valoriale,  l’ho scritto; l’ha pubblicato Altreconomia, per cui ho già scritto “smarketing”, che ha già fatto quattro ristampe.

4. Non vogliamo una fetta della torta,
vogliamo cambiare la ricetta

È il libro dedicato a te se sei un giovane stufo di precarietà e sfruttamento.
Oppure se – dopo anni di onorato mestiere – sei stato messo da parte e vuoi ricominciare.
Per creare il lavoro che ti piace, senza padroni, con un valore aggiunto sociale e ambientale.
La soluzione proposta è di piccola scala, cooperativa ed etica:  un’impresa-bicicletta, che si avvia con pochi soldi, che si capisce come funziona, che dipende poco o niente dal carburante di banche, affitti, servizi parassitari, professionisti disabilitanti e marketing. Che puoi aggiustare da solo. Che ti rende più forte e sano.
Propongo soluzioni progettate e scelte in modo che la ristrettezza economica rappresenti l’occasione per scelte curate, creative, semplici, innovative e conviviali.

È parte di un progetto lungo

“Domani mi metto in proprio” è un libro ma anche un progetto, con corsi, affiancamenti e messa in rete delle persone che ci vogliono provare.

Parliamone insieme a Milano, presso WeMake, il 19 gennaio alle 18.
Ci sarà un rinfresco e potrete acquistare i libri con sconto-autore.

Presentazione di “domani mi metto in proprio”

Questa pagina è per chi vuole ospitare le presentazioni del libro
La presentazione per il pubblico è qui

Associazioni, librerie, biblioteche, centri sociali, GAS  mi invitano spesso a presentare il libro.
propongo due tipi di presentazione

Presentazione classica

È la classica presentazione di un’ora come accade solitamente per le presentazioni librarie, con un ampio spazio per le domande del pubblico.  È un incontro piacevole ed informale.
Non serve il proiettore, porto io qualche schema e qualche oggetto per rendere  i concetti amichevoli e comprensibili .

Al termine vendo le copie a chi è interessato.

Presentazione approfondita

Dura almeno due ore (spesso anche tre) ed è molto interattiva. Si parla più concretamente di come è possibile mettersi in proprio nell’economia solidale. È utile un proiettore, anche se le slides saranno poche, più che altro servono ad inquadrare la situazione e a mostrare alcune possibilità concrete. Racconterò non solo il libro ma tutto il progetto in atto per costituire una rete di persone che si mettono in proprio nell’economia solidale.

 

Supporti per chi vuole ospitare una presentazione

Volete invitarmi?  ne sarò lieto; metterò a vostra disposizione quello che serve per semplificarvi la promozione

Locandina personalizzabile (cartacea) anche stampabile con una normale stampante
Immagine già predisposta per i social (in particolare per l’evento su Facebook)
Comunicato stampa che voi spedirete alle testate locali e on line
Inoltre comunicheremo la data sui nostri social e sulla nostra NL a tutti i nostri amici di quell’area.

 

Come organizzarlo

Cerco di mettere in fila le date in modo di risparmiare troppi spostamenti su e giù per la Penisola.
Per favore scrivetemi per propormi la vostra sede, meglio con un certo anticipo; la mia mail è marco@smarketing.it

 

 

La voglia di alzarsi il lunedì

La vecchia domanda: qual è lo scopo del lavoro?
Non dite anche voi che è solo per i soldi; non è vero, non dovrebbe essere vero. L’uomo non è una merce, il suo tempo neanche.

Un articoletto su questo: http://www.geronimi.it/2009/01/11/la-voglia-di-alzarsi-il-lunedi-mattina/

Campagne sociali

Slides di Paolo Faustini per corso a Altrevie – corso per attivisti sociali

link:
http://issuu.com/smarketing/docs/presentazionegrassi?mode=embed&viewMode=presentation&layout=http%3A%2F%2Fskin.issuu.com%2Fv%2Flight%2Flayout.xml&showFlipBtn=true

11 Farsi fregare sulle inserzioni

Questo è l’undicesimo errore, diffusissimo; arriva per telefono, spesso suona il campanello senza appuntamento.

Per carità, non è che siano persone cattive, come tanti altri girano per le imprese e cercano di vendere il loro prodotto. Solo che non vendono macchinette per il caffè né scaffalature metalliche, loro vendono spazi pubblicitari.
Se vuoi buttare via un po’ di soldi inutilmente loro ti aiuteranno con solerzia. Non immagini quanti soldi vengano sciupati così ogni anno; o forse lo immagini benissimo perchè ci sei cascato anche tu.

Ma la spesa è bassissima! ti dicono. Sono dei venditori, è ovvio che sanno argomentare.
Tu ti lasci convincere e compri qualche “spazio di visibilità”: un’inserzione sul giornalino di provincia, un loghino in mezzo a tanti sul depliant della sagra, una diapositiva nella TV locale a mezzanotte che “non ci crederà, ma la vedono 120.000 persone ogni sera”; o forse erano 12.000, o magari 1.200, chissà perchè qui i numeri non funzionano come i KW di un motore o i chili di un alimento.
Tu paghi poco, una cifra con due o tre zeri, ma quasi sempre vale uno zero solo. E poi cosa significa “poco”? se sei piccolo, quelle “poche centinaia di euro” sono comunque un’occasione mancata per usarle bene.

Di solito il problema di queste inserzioni è che sono illeggibili, brutte, piene di parole astratte, ingolfate, con immagini gia viste… insomma molti dei 10 errori di cui abbiamo parlato. Ma a monte c’è un’altra questione: servono?

Come controlli l’effetto?
Se ti vendono una macchinetta che fa il caffè cattivo te ne accorgi subito, telefoni al venditore e te la fai cambiare… figuriamo se ti vendono una scaffalatura metallica che si piega appena la monti: “lei se lo sogna il saldo della fattura, venga subito a riprendersi la  merce!”  Ma come puoi capire se una piccola inserzione funziona o no?
Se funzionasse molto bene te ne accorgeresti subito: molti ti direbbero“ah, ti ho visto lì”, “oh, ti ho sentito là” e percepiresti un aumento delle vendite. A parte casi particolarissimi, non ci sperare.
Se non succede nulla,  tu non saprai mai se funziona zero, poco, cosìcosì…  o se  magari va benino ma non te ne accorgi.
E poi in fondo hai speso “pochissimo”, cosa pretendi?

Invece occorre sempre sapere se i soldi che hai speso ti tornano indietro. Il famoso ROI, il “retourn of investiments” che dovrebbe essere alla base del marketing commerciale. Sui piccoli numeri è molto difficile da verificare, se non passi da Analytics e da strumenti social.

Ma occorre comunque farsi un’idea, quindi facciamo tre ragionamenti semplici.

Il primo è chiedersi: quanto valore aggiunto c’è?  Intanto il venditore deve pagarci sé stesso, che siano i 5.000 euro per la bellona che parla di te sulla TV locale o i 100 euro per mettere il tuo loghino sullo striscione della partita dei bambini all’oratorio. Se uno investe molto tempo per venderti una cosa economica, comunque, la percentuale deve essere tale da valerne la pena. Poveraccio, immaginiamo tutti che alla fine del mese non si troverà ricco, perchè di clienti ne raccatta certamente pochi, ma comunque non è lì che tu volevi mettere i tuoi soldi.

Il secondo ragionamento è più importante: queste piccole inserzioni sono generaliste. Tu, se sei piccolo e particolare, stai cercando nicchie che ti somigliano. Faresti meglio a chiederti dove tu incontri le persone che sono interessate a quello che fai: su quali riviste, trasmissioni di radio locali, blog, piccoli eventi…
Magari le 50 persone apparentemente minoritarie che guardano un film d’essai sono tutte “buone” per il tuo prodotto speciale e capaci di passaparola, quindi valgono molto di più di 5000 adolescenti in discoteca che del tuo prodotto se ne infischiano altamente.
Quali sono i canali giusti devi scoprirlo tu, devi fartelo raccontare dai clienti; devi conoscere lo specifico del tuo piccolo mondo, e anche semplicemente farti dire dai clienti “come ha saputo di noi?”
Il venditore di pubblicità di quelle cose non sa niente. Quindi, non farti distrarre dalle sue proposte e piuttosto individua le poche testate e i pochi eventi che davvero ti servono a incontrare chi ti somiglia.

Il terzo è: a cosa servono le inserzioni? in un meccanismo elementare di marketing tradizionale tu paghi la pubblicità, ne carichi il prezzo sul costo del prodotto, la gente compra il tuo prodotto e ti ripaga anche della pubblicità. Se tralasciamo per un momento l’aspetto etico, il meccanismo non fa una grinza se non per un dettaglio: è esattamente il meccanismo con cui i pesci grossi mangiano quelli piccoli come te. È quello per cui devi vedertela con le multinazionale e la Grande Distribuzione che competono con te a tre livelli: il prezzo stracciato, la reperibilità dei prodotti a portata di carrello e l’immaginario condizionato dalle favole della pubblicità. Cambia strada, non ne vale la pena.
Pretendere di competere nei piccoli numeri in un meccanismo di grandi numeri è assurdo, e questo vale anche per la pubblicità: il tuo spot sulla TV locale costa un millesimo, ma rende in millionesimo.

Morale

Coi tuoi soldi finanzi dei media. Paghi giornalisti, tipografi, speaker.
Così come chiediamo coerenza a un contadino o a un artigiano, altrettanto tu puoi (anzi devi)  chiederla al mediun che usi per promuoverti.
Se scegli mezzi etici, sensibili, colti che rinunciano al business fine a sé stesso, probabilmente troverai costi che apparentemente sono maggiori in proporzione al numero (di lettori, ascoltatori, visitatori…), ma in realtà sono costi  ottimi se si pensa a un poubblico moltiplicatore di passaparola. Inoltre la reputazione di chi è disinteressato è sicuramente più seria e più meritata. Quei poichi soldi sì, quelli sono spesi bene. Ma nessun venditore te lo dirà, devi scoprirli da solo. Inoltre funziona solo se quello che fai è davvero buono su entrambi i piani:  la qualità del prodotto e l’etica del processo.

6 Bellezza

Tutti i giorni passo in tangenziale di fianco al “termo-valorizzatore” di Brescia il cui camino è un parallelepipedo slanciato, colorato con una sfumatura graduale di blu-azzurro.
In ogni condizione del cielo, accoppia in un modo incantevole sfondo e figura, con un uso essenziale e pulitissimo dello spazio.
Da quel tubo così perfetto ed elegante ogni giorno passano tonnellate di nanoparticelle infinitamente più piccole del PM10, che entrano nei pori, negli alveoli polmonari; c’è un’industria miliardaria che fa soldi con la nostra salute bruciando il nostro pattume.
La lobby degli inceneritoristi ha amici tra i politici di ogni area e controlla la stampa, ma il cancro che è arrivato a persone a me care dev’essere partito proprio da quel bellissimo slanciato tubo di blu sfumato.
Non è vero che bello è buono; il gusto estetico, come l’intelligenza, è in vendita e i da sempre potenti si possono permettere le prostitute più belle.

D’istinto pensiamo che bello = buono. In natura spesso è così, il fiore è bello perché chiama l’insetto impollinatore, l’individuo dell’altro sesso attrae perché è la stagione degli amori, eccetera.
Noi umani oggi con fatica scopriamo che spesso bello non significa buono: c’è la trappola, il travestimento, la mistificazione, la seduzione in malafede. Separare buono e bello è una fatica, in qualche modo è una schizofrenia.

Tornassimo a zappare

«La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere.» diceva in un verso di John Keats quasi 200 anni fa guardando un’urna greca. «Il bello non è vero», scriveva invece Leopardi solo cinque anni dopo.
Vorrei dare ragione a Keats, ma mi tocca dar retta a Leopardi, me lo dice la mia pancetta sovrabbondante.
200 anni fa (ma anche 100, anche 50…) le donne lavoravano nei campi e mangiavano cereali e verdure: erano magre, toniche ed abbronzate come oggi vorreste essere voi, care lettrici; ma allora il prototipo di bellezza era una donna pienotta, morbida, languida, un po’ atona: carne bianca come la neve con guancette rosse come le mele.
Voi ora state in ufficio e mangiate cibo industriale, siete delle bellissime ottocentesche: cicciottelle morbide, pallide, languide, un po’ atone. Invece di leggere Keats e compiacervi davanti allo specchio contemplando i vostri candidi rotoli inguinali voi, iconoclaste che non siete altro, vi massacrate di diete, lampade e palestra. Le contadine, per zappare, le pagavano: poco, ma le pagavano; voi, in palestra, non vorrei dire… Lo faccio anch’io che sto scrivendo, ma mentre alzo i manubri o pedalo su una cyclette fatico molto a non sentirmi cretino, per due motivi:
1, uso come paragone delle mie cicce il ventre marmoreo del limitrofo bisteccone professionale, e ditemi voi se questo non significa farsi del male da soli; significa che mi assimilo a un standard estetico che non mi appartiene, e che anzi che mi fa pure un po’ fastidio.

2, tutte quelle calorie che il mio corpo emette non generano lavoro ma consumo: questa è il modo più imbecille di faticare mai adottato da muscoli umani da millenni, designa inequivocabilmente che abbiamo superato il culmine dell’evoluzione umana e che d’ora in poi regrediamo verso l’ameba.

Ci costruiscono sbagliati di default.

Nei miei albori professionali son passato dal meraviglioso mondo della moda milanese. Vi testimonio che è vero: perfino le bellissime indossatrici quando si guardano nello specchio non si piacciono.
Me ne ricordo una sui vent’anni in un backstage che mi urlava disperata mostrando che aveva la cellulite stringendosi un gluteo (una semisfera levigata e marmorea collocata all’altezza in cui noi umani abbiamo il torace) in piena crisi nevrotica con tanto di vomito e sfasciamento di piccole suppellettili simboliche. Questo aneddoto risale a decenni fa, lo raccontavo a ogni conferenza sottintendo alle signore in sala: perfino le modelle non si piacciono quindi voi rilassatevi pure, la vostra reale forma fisica c’entra ben poco con l’arte di piacersi; finché una delle signore in sala mi ha riferito che la maggior parte capiva a modo suo: se perfino le modelle non si piacciono, figurati io. Così ora racconto di Rubens col pennellino piccolo che piano piano dipinge la cellulite, un pallino alla volta, alle cosce della sua sensualissima Venere al Bagno. Che voluttà!

C’è poi lo stereotipo dell’età. I bambini vorrebbero crescere in fretta per avere già vent’anni. A venti – venticinque anni è un’età di cacca: di precariato sentimentale, lavorativo, abitativo, ideologico, geografico e in tutti gli altri sensi, specialmente oggi che i giovani stanno peggio dei vecchi. Verso i venticinque cominci a sentirti un po’ vecchio, e vai avanti così fino a 90 rimpiangendo i 25.

E vogliamo parlare dell’identità maschile? E dei ruoli (non sei un bravo marito, non sei una brava moglie, non sei un bravo genitore…)? E di quella trappola vecchissima (che funziona meno, ma funziona ancora) della merce come indice dello status sociale, tipo: comprare il macchinone per essere invidiato e ammirato?

Il marketing ci programma per non piacerci

Dunque abbiamo parlato prevalentemente della bellezza femminile perché ha gli stereotipi più evidenti, ma i programmi di disinstallazione dell’autostima sono elaborati per ambo i sessi e per tutte le età.
Il perchè è semplice: citando Beigbeder, “la gente felice non consuma”1.

1 Frédéric Beigbeder Lire 26.900 Feltrinelli

5 Cultura

Non potremo mai diventare colti
come un pastore analfabeta del ‘300

Immagina di essere un pastore del 1300 perduto nelle campagne toscane.
Sei analfabeta, vedi 20 persone all’anno, ti esprimi con poche centinaia di parole; soprattutto non vedi immagini, mai.
Una volta all’anno però, a piedi, porti gli agnelli fino a Firenze per venderli.
E lì entri in una chiesa e vedi una Madonna di Giotto. Che effetto ti fa?

Io sono sicuro che provi una perturbazione emotiva improvvisa e indicibile; la immagino come una vertigine che noi istruiti chiameremmo estetica, mistica, erotica, cosmogonica, psicanalitica… (quante parole per rimpiangere una tale potenza interiore) ma tu non hai parole, hai solo questa sensazione commuovente e sconvolgente.

Come succede a chi ha pochi filtri intellettuali, probabilmente ti prenderà la pancia, ti darà le vertigini e avrai bisogno di sederti a riprendere il fiato e asciugare le lacrime; da quel giorno quel sorriso ti accompagnerà nel sogno di molte notti.
Forse ne vorrai un piccolo simulacro da portare addosso, di quella cosa davvero sacra, nel senso che davvero modifica lo spirito del il tuo quotidiano vivere nel mondo materiale.
Avrai ad esempio qualcosa di femminile e protettivo a cui parlare sottovoce quando le nuvole minacciano grandine sul raccolto quasi maturo.
Cari miei contemporanei dell’era delle immagini inflazionate, leggere pure tutti i libri di storia dell’arte che volete: non potrete mai provare e nemmeno concepire l’impatto estetico ed estatico di un’immagine quando le immagini non erano, come sono oggi, troppe.
Nessun rimpianto, non fraintendetemi. Ma vi raccomando la conspevolezza di questa abissale differenza e un po’ di nostalgia per una più potente capacità estetica. Noi non siamo discendenti di quel pastore; non potremmo mai esserlo. Siamo discendenti dell’artigiano fiorentino che, se ha venduto al pastore il piccolo simulacro, probabilmente ha scoperto che ne poteva fare una piccola serie, quindi per lui era già una madonna colla emme minuscola, profanata e profana.

4 Fluidità

I nostri messaggi come auto nel traffico

Avete presente quei tipi che quando sono in auto si incavolano coi pedoni e quando sono a piedi ce l’hanno cogli automobilisti? Anche se non è simpatico, vi annuncio che tutti noi gli somigliamo: quando emettiamo dei messaggi pretendiamo che il ricevente li ascolti distinguendoli nel caos in cui è immerso; ma quando siamo noi a ricevere simili input ne siamo infastiditi, spesso sentiamo pure insofferenza per chi li emette.
Come esempio prendiamo la forma di comunicazione più elementare ed economica, un volantino.

L’arte, frustrante, di volantinare

Voi fate un volantinaggio e la gente rifiuta il vostro foglietto senza neanche sapere cosa c’è scritto: non è una bella sensazione.
Con alcuni studenti di Milano1, abbiamo videoregistrato un volantinaggio per capire quanto tempo si posa lo sguardo del ricevente sul foglio prima di decidere se accettarlo o no. La videoripresa dei bulbi oculari fu meno difficile di quanto si potrebbe pensare: i pedoni dovevano passare per una strettoia in fila indiana illuminati in faccia dalla luce del mattino.
Come spesso succede, si impara di più dagli insuccessi che dai successi: il tempo dello sguardo era così infinitesimale che non era quasi mai misurabile e comunque quasi nessuno voleva il volantino.

L’importanza di capire subito l’argomento

Innanzitutto abbiamo scoperto che lo sguardo si posa più a lungo sul volantinatore che sul volantino.
Non ci è sembrato che fosse una questione di bellezza o eleganza. È stato smentito anche il mantra misogeno un po’ di gnocca funziona sempre: una studentessa molto graziosa che appositamente si era “messa in tiro” ha avuto grossomodo lo stesso insuccesso di coetanei maschi meno belli. Tutti hanno testimoniato invece l’impressione che il passante guardasse il volantinatore per capire l’argomento e quindi quanto gli interessasse il volantino.
Si trattava della promozione di un concerto di una band di studenti, e chi si vestiva in modo simile all’argomento (cioè coerente allo stile e al genere della band) aveva un po’ meno insuccesso degli altri.

Dice molto più la grafica del testo

La misurazione del tempo dedicato allo sguardo sul volantino è stato il dato più clamoroso, così breve da essere praticamente impercettibile, poco misurabile neanche dove potevamo fare il timing in digitale della videoregistrazione dei bulbi oculari: un tempo nell’ordine dei pochi decimi di secondo.
Per leggere una sillaba ci vuole circa un decimo o due, a chi legge poco anche mezzo secondo. Ma prima ne servono almeno 4 o 5 per capire la pagina ed orientarsi in essa. Quindi uno sguardo che dura pochi decimi di secondo, dato da lontano a un mazzo di volantini in movimento, basta al massimo ad avere un’idea flash dell’impaginazione e leggere forse una parola del titolo. Questo è quello che decide se il messaggio passa o non passa, quindi la cosa più importante di tutte.

La questione cambia, ma poco, per i tanti volantini accettati, appena degnati di uno sguardo e poi abbandonati. Di solito sono gettati a terra: un comportamento poco civico e poco ecologico che però è indotto dalla logica stessa del volantino, che sollecita lo spreco di carta.
I volantini subito abbandonati o gettati sono guardati per un tempo più lungo, ma raramente superiore al secondo. In un secondo mi faccio una discreta idea flash sul volantino (coerenza grafica, colore, ingombro) e leggo forse una parola del titolo.

La relazione è più importante del contenuto

Il volantinatore che guarda il passante negli occhi con un sorriso franco e gli mostra da lontano il volantino, senza fare gesti invadenti, ha una discreta probabilità che questi lo richieda spontaneamente, ribaltando i ruoli. Naturalmente la grafica deve essere amichevole e si deve capire subito l’argomento. Così, tra l’altro, i volantini abbandonati per terra diventano pochissimi: si possono raccogliere e se sono puliti riusare, se no gettarli nella carta da riciclare; non è solo una questione ecologica, è anche evitare una ferita narcisistica: la brutta sensazione si prova quando una cosa a cui tieni è per terra calpestata da tutti.
Anche se è una relazione che dura un istante, in quell’attimo lo sguardo reciproco tra chi dà e chi riceve il volantino libera entrambi dall’anonimato; distribuisci meno volantini (risparmiando carta e soldi), ma è più probabile che vengano letti, specialmente se li offri a chi entra in metropolitana, che avrà un po’ tempo per leggere.
Ma questo agli studenti non l’ho raccontato subito, era necessario che lo scoprissero da soli: queste cose, se le “insegni” a mo’ di manualetto di istruzioni, ne perverti il senso.
Lo scopersero solo alla fine del secondo giorno.

1, in particolare Facoltà di Informatica/Polo di Crema, classe di Nuovi Media aa. 2002-03, più a titolo personale una studentessa della IULM e due studenti medi del Parini. Si è trattato di due mattine feriali davanti a un ingresso della metropolitana. Le videoregistrazioni sono state informali, autogestite dagli studenti; il metodo seguiva una pragmatica di “caccia al problema”, quindi la ricerca non pretende di avere alcun valore statistico quantitativo. I risultati che qui riassumo sono esiti esperiti dai partecipanti, ai quali devo molte delle intuizioni che qui riporto.

 

3 Vicinanza

 

Vai a Milano, ma a chilometri zero

 

Se è corta la filiera, migliora la qualità del prodotto, il suo prezzo è più vicino al prezzo sorgente, il territorio agricolo è più bio-diverso, il contadino guadagna il giusto e l’unica migrazione che deve fare è quella dalla quantità alla qualità.
E poi ci sono meno camionisti impasticcati che guidano il TIR 16 ore di fila, c’è meno camorra nei mercati generali, c’è meno chimica sui campi. E chissà mai, magari verrà un felice domani in cui i buyer della GDO che oggi ricattano gli agricoltori (“o me le vendi a un euro a cassetta o te le tieni a marcire”) resteranno disoccupati e andranno a zappare, tanto per vedere che fatica si  fa.

Le arance dei norvegesi

Con quel freddo, gli serve tanta vitamina C: come la mettiamo col principio del Km zero? Comunque vada, un flusso tra nord e sud e tra campagna e città ci sarà sempre, per ovvi motivi climatici e demografici; la sfida è ridurla e che anche questa parte della distribuzione, a filiera geograficamente più lunga, sia gestito dal basso, da parte del piccolo produttore verso gli acquirenti organizzati, ad esempio coi GAS, in modo da tutelare il territorio, minimizzare i costi energetici, assecondare le stagioni naturali e consentire a chi vive in zone più affollate o più fredde di mangiare in modo sano.

 

100 km dal Duomo

 

La cartina che vedete è il giro di 100 chilometri disegnato da un compasso con lo spillo sul Duomo di Milano. All’interno di questa circonferenza abitano circa 11 milioni di abitanti, un italiano su 6 (e pure qualche svizzero). Se avete un agriturismo in Maremma, se producete arance in Sicilia, se siete teatranti veneti… un cliente su sei abita lì. Notate che è un cliente che spesso genera passaparola sul resto della penisola: meno della metà sono nativi lombardi e mediamente usano i social media più degli altri italiani. Tutti concentrati, sono più facili da raggiungere.
Ricordiamoci che non ci serve pubblicità generalista: preferiamo farci trovare da chi ci cerca, limitarci a dire che esistiamo e come trovarci; infine quando arrivano i contatti (pochi ma buoni), dobbiamo curarli bene.

 

Esempio

 

Una fiera come “Fa’ La Cosa Giusta”, può essere lo sforzo che vi rende liberi dal bisogno; per quello scopo mille euro di spot su una radio come Radio Popolare possono bastare a colmare le vostre esigenze per molti anni senza ulteriori spese pubblicitarie, ma (mi raccomando!) solo se lo spot è buono, solo e è ben cross-mediato sul vostro sito, solo se è sufficientemente integrato coi social media, solo se tutto ciò precede la fiera e solo se dopo la fiera sapete coltivare con pazienza e disciplina i contatti acquisiti. Se no son soldi buttati via.

 

Pochissime migliaia di euro: sforzo piccolo in assoluto, ma non piccolo per piccoli produttori con pochi soldi e (quel che è più difficile) con poco tempo. Voi non pretendete di arricchire, volete solo arrivare alla soglia di sicurezza e raggiungere un’economia sufficientemente serena; calcolate quanto vi costerebbe farvi conoscere in posti meno densi: dovreste essere più generalisti, la vostra pubblicità sarebbe più spam, sarebbe più costosa, meno gradita, inutile, troppo simile a quella di coloro cui non volete somigliare.

 

 

2 Differenza

Abbiate differenza se cercate identità

Leggete bene questa paginetta, per molti di voi è lo spartiacque tra un lavoro sereno e la disoccupazione.
Incontro spesso l’artigiano calzaturiere che vorrebbe un logo da multinazionale, l’agriturismo che vorrebbe un nome che somigli all’hotel fighetto, l’erborista che vorrebbe il nome in inglese “così mi prendono più sul serio”…
Sono convinti, determinati: dicono che “l’istinto glie lo dice”, che “non ascoltiamo il cliente”; ma la vocina che parla dentro di loro è solo il frutto di una vita immersa nella retorica del marketing.
Mostro questa immagine a loro e a tutti quelli che desiderano uniformarsi agli standard e nascondere le proprie differenze per timore di sembrare troppo strani, bizzarri o anticonformisti.
La nostra differenza a volte è difficile da sostenere: mentre tutti i “normali” ambiscono a diventare in qualche maniera “speciali”, chi ha fatto scelte più divergenti si scontra continuamente coi pregiudizi, le incomprensioni e i luoghi comuni; a volte farebbe volentieri a meno di questo stress.
Negli altri campi della vita ciascuno faccia quel che si sente, ma nella comunicazione assomigliare al cliché significa perdere un’occasione preziosa e spesso irripetibile per incontrare chi ti cerca.

Quest’immagine è molto usata nella Gestalt, la psicologia della forma applicata alla visione. Dovete scegliere se vi conviene essere un omino nero o quello arancione, tutto qui. E’ plausibile pensare che gli omini neri siano tutti simili: abbiano gli stessi gusti, le stesse idee, le stesse aspirazioni… Probabilmente tentano tutti di essere visibili conformandosi agli standard; ovviamente questa ricerca di visibilità genera il suo contrario e li rende fatalmente trasparenti, omologati e indistinguibili.

Siate speciali, è più facile che essere normali

Vale anche per le identità aziendali; in termini banalmente economici: se siete quello arancione sarete riconosciuti con poco sforzo, se siete quello nero per farvi notare sul vostro mercato dovrete fare pubblicità tradizionale e pagare molti più soldi, tempo e fatica, con risultati che saranno labili nel tempo. Tipicamente dovrete competere sul prezzo e non sulla qualità, perché solo nella fattoria di Orwell si può essere “più uguali degli altri” , nelle altre condizioni per distinguersi occorre essere diversi.
Il cervello umano tenta di organizzare come può i miliardi di dati che percepisce continuamente, e per farlo usa delle regole mentali; una è questa: più è semplice la rappresentazione, minore è lo stress. Quando un elemento si ripete molte volte, la mente genera un tutt’uno, un unico insieme coerente e continuo dei mille elementi ripetuti. Se ci sono delle minuscole differenze tra gli elementi, non ce ne si accorge: la somiglianza è più preziosa per la mente dei dettagli, perché permette di raggruppare gli elementi simili in un unica forma.

È evidente a tutti che oggi il paesaggio mediatico vero è ben diverso da questa immagine: ogni omino del marketing vero, quando cerca di entrare nella nostra testa, è coloratissimo, chiassoso, saltellante, sexy, veloce, spiritoso e reclama la visibilità; la vostra vera difficoltà è probabilmente quella di sentirvi un piccolo omino nero in mezzo a cento pupazzi sgargianti invadenti e chiassosi che si rubano a vicenda la scena (dove la “scena” è la satura l’attenzione di ciascuno di noi). Inutile concorrere in quel contesto, meglio altri territori di comunicazione.

 

 

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