Somigliamo a un contadino dell’ottocento, che capiva gli ordini dei padroni in italiano, ma sapeva rispondere solo in dialetto.
La differenza nella capacità linguistica separa chi comanda e chi obbedisce.

Succhiata come il latte

La pubblicità si atteggia a scienza difficile che appartiene a pochi guru, ma non è vero; tutti noi, in quanto riceventi, ne conosciamo benissimo ogni sfumatura; il problema è che si tratta di una competenza passiva.
E’ un linguaggio che assimiliamo come una lingua materna, contate quanti spot subiamo ogni giorno fin da bambini. Aggiungete i segni che invadono il nostro territorio, il nostro paesaggio quotidiano. Fin da piccoli i marchi hanno conquistato il nostro tempo e il nostro spazio e li impegnano con seduzioni potenti ed immaginifiche.
Quando si dice “lingua materna” intendiamo un sapere collettivo, la somma di impronte depositate in ciascun cervello. Però se fosse una comune lingua verbale, come ad esempio l’italiano, ci sarebbe la parole di ciascuno: l’aspetto individuale e creativo del linguaggio che dipende dal singolo individuo, “atto di volontà e intelligenza” (cercate su Wikipedia: Lingua_idioma o De Saussure).

Lingua matrigna

“Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera” ha detto Tahar Lamri (in italiano) in una bella conferenza a Mantova Letteratura. È la condizione degli scrittori di popoli colonizzati e migranti, che scrivono libri nelle lingue europee e non nelle proprie.
Si può pensare nella stessa maniera per noi rispetto alla pubblicità? Vedo un’immensa ricchezza in quelle forme d’arte che si impossessano dell’advertising e ne sovvertono senso e scopi: gli artisti pop, i rapper, i graffitari, i videomaker, i mediattivisti, tutti coloro che alterano, mescolano, smontano e rimontano, storpiano i frammenti di tutti quei sogni artificiali di opulenza, cibo, sesso, status symbol e li trasmigrano in nuove forme di arte metropolitana, nuovi linguaggi, nuove soggettività.
Abbiamo cominciato pensando al contadino che parlava solo dialetto; “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, diceva Pasolini nel ’51; oggi chi s’è inurbato il dialetto l’ha perso, e con esso la padronanza cognitiva delle cose.
Che nascano nuovi slang metropolitani è meraviglioso, anche se i puristi l’hanno a lungo considerata sottocultura. Che ne nascono di tecnologici e crossmediali è intrigante, sicuramente divertente, probabilmente importante.
È l’alfabeto nascente dei contenuti generati dall’utente, la nuova lingua digitale che parleranno i nostri nipoti, volgare quanto lo era il volgare per Dante. È bellissimo che l’uomo riesca a generare intelligenza e senso anche nelle situazioni più desolanti: succede a chi è in una buona rete sociale o ha sufficiente forza culturale, morale o psicologica. E gli altri?

Diventiamo noi il prodotto

Gli altri, provvisti di una dose inferiore di cultura e grinta, gradualmente subiscono una lenta transizione da cliente a merce.
Non è come la metamorfosi di Kafka, non ti sveglierai una mattina scoprendo di esserti trasformato in una sottiletta. È una mutazione lenta che comincia nell’infanzia e ci porta in età adulta a giudicare noi stessi e a pianificare il nostro comportamento sociale comportandoci da prodotti e paragonandoci ai cliché e agli standard della pubblicità televisiva.
Se sei debole culturalmente o sei molto giovane, senza particolari anticorpi culturali o psicologici, ti guardi allo specchio e ti chiedi subito come sei messo a pancetta, tette, capelli… cioè che merendina sei nel mercato della stima, della visibilità e dell’affetto. Se esci con gli amici non ti vesti, ti travesti da chi vorresti essere. Nel dialogo magari ripeti le battute e dei salotti televisivi… ti guardi intorno e ti chiedi che share hai, se ti vendi bene al tuo pubblico. Se ti senti un prodotto mediocre, te ne stai in disparte.
Non sai cosa siano il tribal marketing o la brand experience ma li pratichi inconsciamente: tu sei il tuo brand nel mercato dell’attenzione. Peccato che sei solo un sottoprodotto: che desolazione.

Calciatori e veline

Quando i bambini dicono che da grandi vogliono fare i calciatori o le veline, voi pensiate che siano stupidini; no, purtroppo: hanno imparato come gira il vento dalla più potente agenzia educativa che non è la scuola o la famiglia ma la TV. Chi sta là dentro, nel piccolo Olimpo dello schermo, viene visto, dunque è vero; noi non siamo visti, quindi il mondo fasullo è questo al di qua dello schermo.
Lo sa ogni maestra che si vede una ventina di figli unici poco ascoltati (anzi, ora sono diventati 28 per classe) ciascuno con un disperato bisogno di essere visto individualmente: quante bizze, performances, trasgressioni, frigne, provocazioni per guadagnarsi uno scampolo di visibilità. E’ un tema che io chiamo sindrome del bambino trasparente ed ho trattato in altre pubblicazioni (se a qualcuno interessa, basta googlarlo).
Se restano culturalmente deprivati, gli unici strumenti linguistici che possiedono appartengono a questa lingua catodica: diventare personaggi, cioè non persone ma prodotti. Gustavo Zagrebeklsky dice “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità” (googlatelo con la parola chiave biennaledemocrazia).
Io propongo di mettere questo concetto accanto a quello del lutto per la mancata visibilità: nel ’68 Andy Warhol aveva promesso che avremmo avuto tutti 15 minuti di fama mondiale. Chi s’è fregato i 15 minutes of fame di questi ragazzi?