Siete buoni, sensibili, etici, fate bene all’ambiente, rispettate il cliente: così diventa più difficile lo sport di sputtanarsi da soli; nonostante questo, molti di voi ci riescono brillantemente, ecco come.

Confondere la reputazione con l’immagine.

La reputazione si riceve; l’immagine si offre. La reputazione si ha, l’immagine si mostra.
L’immagine è quello che ti ricordi quando hai dimenticato tutto il resto, dicono da 50 anni i marketer delle grandi aziende: hanno ragione, anche se per loro questa regola vuol dire: investi tutto sull’immagine, mentre per noi invece significa: non far dimenticare tutto il resto.
Da quando c’è internet, l’immagine diventa meno importante e la reputazione molto più vitale.
Per noi “piccoli” la cura dell’immagine è appena una messa in ordine: è come lavarsi la faccia o indossare degli abiti puliti. Vogliamo essere noi stessi, appena più chiari e ordinati per evitare i pregiudizi del primo contatto. Altra cosa è l’identità artificiale del marketing.
Comunque, che sia sincera o cosmetica, l’immagine è il modo con cui ci presentiamo.
La reputazione invece si riceve, è un’attribuzione che ci viene data dagli altri e che ci si guadagna sul campo. Molte pagine di questi libriccini si occupano di immagine e dell’identità espressa, perché è il punto di partenza, perché se sbagli quello, va peggio tutto il resto; ma la reputazione sui tempi lunghi è molto, molto più importante.

Tenersi riservata la responsabilità sociale

Se hai un protocollo di CSR e ogni anno pubblichi il tuo bilancio sociale, offri al tuo pubblico quello che serve per capire chi sei, cosa fai, come verificare le tue affermazioni, quali reali problemi vuoi affrontare per migliorare e come.
Se non ce l’hai di solito è già un errore. Se ce l’hai e non lo rendi visibile anche.  Se non lo si può vedere ci possono essere solo due spiegazioni: o sono balle e hai qualcosa da nascondere, oppure non sei organizzato per raccontare chi sei e cosa fai. Di solito è vera la seconda ipotesi, ma la gente è molto più propensa a supporre la prima.

Raccontarsi in falsetto

Un contadino che dice “questo campo è in conversione, lo coltivo biologicamente da tre anni ma ancora non può essere certificato, però senti che profumo queste zucchine” sta raccontando una storia, ti porta ad essere suo alleato in un processo evolutivo. Se invece ti dice: “sì, sono biologiche” fa prima, ma ti sta ingannando e per giunta vanifica i processi di certificazione e rischia di pregiudicare l’intera categoria, senza alcun vantaggio reale.
Spesso capita anche in buona fede; si confondono gli obiettivi coi risultati, si dimenticano dei difettucci, si lasciano che alcune ambiguità siano fraintese attribuendoci un piccolo vantaggio di immagine che non meritiamo…
Spesso ce ne rendiamo conto passando dall’orale allo scritto: quanti clienti (bravissime persone) nelle interviste iniziali fanno certe affermazioni, io le scrivo, loro le leggono e dicono “ma questo non è mica vero”… Occorre un training mentale per abituarsi a distinguere i desideri dai fatti e dire solo cose oggettive e verificabili, se no puoi essere bravo, bello e buono ma rischi una cattiva reputazione.
In genere si è “bugiardini” per pigrizia, per approssimazione, per l’emergenza di vendere qualcosa quando gli affari stentano; non va bene perché così ci si confonde coi bugiardi veri, quelli che mentono sapendo di mentire e vogliono manipolare la scelta d’acquisto con informazioni fuorvianti.

Sovrapromettere

La promessa ingenua è un classico errore delle piccole start-up; spesso non serve a calmare il cliente, ma a ingannare noi stessi. Per costringerci all’auto-sfruttamento promettiamo una scadenza che faticheremo ad onorare così, diciamo a noi stessi, saremo costretti a farcela. Quando ragioniamo così puntualmente non ce la facciamo, ad esempio perché quel weekend lavoriamo, sì, ma per qualcun altro: l’auto-sfruttamento, quando supera la diga, allaga tutta l’agenda e non si riesce più a pianificare nulla. Deve essere una condizione straordinaria, non frequente; e non solo perché ci roviniamo la salute e le relazioni (questo è così ovvio che magari ci sentiamo più eroici) ma anche perché serve a mantenere l’adattabilità: un ottimo elastico se resta sempre teso alla massima estensione, è solo uno spago debole. Non ci sono scuse, l’attività ci rimette. Se non ci credete googlate la parola “workaholic”

Prendersela

Nei social network le critiche giuste ci saranno sempre, non siamo perfetti; usiamole per correggerci e per mostrare a tutti che sappiamo affrontare i problemi; trasformiamole in dialogo, testimonianza; porgiamo le scuse franche quando è giusto e spieghiamo il nostro operato schiettamente. Ci saranno anche le critiche sbagliate: portate pazienza, porgete argomenti, niente censure se non c’è un’evidente ripetizione in malafede da parte di un singolo.
La critica diventa micidiale quando non riceve risposta, giusta o ingiusta che sia.

Non aggiornare il sito e il blog

Parlare del proprio lavoro su un blog è un gesto di amore per quello che si fa, un modo per condividere le proprie scelte di vita. Chi vuole mostrare che questo amore non ce l’ha, basta che molli lì il sito e il blog, lasciarli senza vita con notizie vecchie di mesi.
Infatti è molto importante che il blog sia vivo, aggiornato e che il sito abbia delle news recenti.
Se uno che vi cerca va sul tuo sito e vede che non è successo nulla da mesi, pensa che l’azienda sia defunta, ed ha ragione: da quel momento per lui essa sparisce.
Ti manca l’abilità? Lasciati istruire da qualcuno più giovane: essendo nato dopo, evolutivamente è più vecchio.
Ti manca la motivazione? La sera spegni la TV e frequenta i blog degli altri, trova cose che ti intrigano, interagisci… vedrai che la voglia ti viene; se invece languisci su Facebook a discutere col tizio che conosci appena del suo cagnolino di cui non ti frega niente, dopo due settimane ti stuferai e ti sembrerà poco importante anche aggiornare il tuo blog.