Libri sullo smarketing

I dinosauri si sono estinti, le formiche no.

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1 Come sbagliare nome

Se stai leggendo qui, probabilmente la tua organizzazione un nome ce l’ha già. Ma si dà un nome anche ad eventi, prodotti, negozi, festival, libri, partiti…
Serve un nome
facile da ricordare e che non somigli a quello dei concorrenti; serve fin dall’inizio: per pubblicizzare un nome sbagliato occorre spendere cinque o dieci volte di più, a parità di risultato.
Se poi di pubblicità  proprio non ne vuoi fare, ti serve un nome che “stia bene in bocca”, se no impedisci il passaparola.
In gergo “battezzare” un’azienda si chiama
naming. Una delle poche parole del marketing tradizionale che reputiamo molto utili.
E’ impegnativo, è giusto metterci molto tempo.

Se apri le pagine gialle vedrai che quasi metà dei nomi sono sigle incompatibili con la memoria umana; l’altra metà sono così ovvi e prevedibili che si somigliano tutti.
Ma, almeno, nelle pagine gialle ci sono le categorie: se hai una pizzeria e l’hai chiamata “Bella Napoli” come altre ventisette nella tua città, almeno non rischiano di ordinare una pizza all’elettrauto.
Oggi addio pagine gialle, c’è internet. Con un nome generico e internet male integrato agli altri media, grazie ai motori di ricerca, puoi ottenere il vero colpo di genio dell’autolesionismo: fare pubblicità pagante per mandare il tuo cliente a un’altra pizzeria.

Scegliete un nome in cui non si capisce cosa fate

È come fabbricare scale e chiamarsi ciabatte. Coltivate melanzane? chiamatevi “il colore viola”. Costruite chitarre? chiamatevi “touch my keyboard”.

Scegliete un nome difficile da ricordare

Un nome dev’essere adesivo, appiccicarsi in mente, invece non vi immaginate quanti nomi di aziende sono stati scelti dai commercialisti! Li considerano una propaggine del codice fiscale, poi uno deve lavorare tutta la vita per un’azienda con un nome così! Si tratta a volte di sigle con sonorità di virtuosismo futurista, ad esempio con tre o quattro consonanti a raffica, meglio se gutturali; così quando rispondete al telefono sembra che abbiate problemi di catarro.

Scegliete un nome che somigli a tanti altri

Se andate alla pizzeria Bella Napoli o al ristorante cinese La Grande Muraglia, magari vi trovate benissimo, il problema è se vi trovano quelli che invitate a cena.
Voi la ricordate non per il nome, ma per il posto con cui si colloca nel territorio, ma immaginate di dire a un amico: ci troviamo alle 9 a Milano alla pizzeria “Nome Banale”. Dovete arricchire l’informazione di dati sostitutivi (e sottolineo sostitutivi, non supplementari, un nome banale è come non avere nome), diventa “la pizzeria di via Savona prima del benzinaio venendo da Piazza Friuli”. Se quei dati lui se li deve cercare col telefonino su internet, o alla vecchia maniera sulle pagine gialle in un bar, lo troverete alle undici di sera in chissà quale autogrill a mangiare un panino.

Scegliete un nome da mass market

Questo è un errore ostinato e patologico: quanti bravissimi coltivatori, bioarchitetti, artigiani alternativi, installatori di energie pulite… scelgono un nome che suona come quello delle aziende “vere” perché non vogliono “sembrare troppo di nicchia”.
L’informazione si basa sulla differenza, noi dobbiamo e vogliamo essere diversi, riconoscibili come un cavallo in un gregge di pecore! Se siamo piccoli e deboli non possiamo non esserlo.
Invece abbiamo l’agriturismo biologico “Modern Resort”, l’installatore  “Solar Business” e via dicendo (sono nomi di fantasia, ma devo andarci piano perché qualcuno che si chiama così probabilmente c’è davvero). Risultato: tanti onesti lavoratori rischiano darsi un’immagine falsa e artificiosa, come le osterie quando si mettono l’acca davanti.

Scegliete un nome che non vi somiglia

Guardatevi allo specchio; io ad esempio sono un cinquantasettenne cicciotto con la barba. Non potrei chiamarmi Pierino, Giamburrasca, Pippi Calzelunghe, neanche Maciste o Ursus… Eviterei anche Casimiro, Uboldo, Giovangiulio, Oronzo, Pierferdinando… e anche Fido, Fuffi, Miumiù, Chita; viste le dimensioni della mia pancia neanche Spillo, Pipino, Anguilla… visto che penso sempre a lungo neanche Fulmine, Schizzo o Saetta, a meno di non giocare sul paradosso. Potrei chiamarmi con un nome femminile? il 50% dei nomi propri di persona mi darebbe qualche complicazione. Potrei continuare a lungo, i nomi sbagliati sono infiniti. Quindi l’ autolesionista ha ricche combinazioni di errori che moltiplicano reciprocamente gli effetti nocivi: per me un nome femminile da quadrupede magrolino molto veloce. Per la tua azienda, il tuo libro, il tuo prodotto…?
La domanda è ovvia: se per battezzare una persona è un’evidente stupidaggine, perché succede cosi spesso per le organizzazioni?
Inventare un nome non è facile; per giunta difficilmente un nome vi assomiglierà al 100% (il significante non è il significato).
Come fare a non sbagliare? Ne parleremo nei prossimi libriccini, ma intanto ecco il consiglio basilare: fatevi aiutare da qualcuno fuori dal vostro labirinto delle scelte; voi ci pensate mesi o anni, fatalmente il vostro ragionamento può diventare involuto o tortuoso, invece la sensazione che dà un nome è immediata e diretta. Quindi chiedete ad amici e conoscenti “se ti dico questo nome cosa ti fa pensare?” Se il nome della vostra gelateria fa pensare a un’azienda di saponette, cercate un nome diverso.

Fate giochi di parole prevedibili o multipli

Ad esempio quelli che finiscono in -mente: il primo era carino, ma quando ne vedi cinquanta all’anno da vent’anni… Si sa che quando fai ridere qualcuno, ottieni la sua simpatia. E se non lo fai ridere, cosa ottieni?
Questo esempio è vero, ma i dispetti si fanno agli amici: mi hanno chiamato a fare un corso che si chiama “Ecomunicattore”. Un gioco di parole può essere efficace ( se evitate quelli abusati) ma non tre o quattro insieme.
Per scoprire se un gioco di parole è inflazionato, basta un quarto d’ora su Google.
Ad esempio sono terminati (mi sembra) tutti quelli che hanno dentro la parola “bio”; son stato settimane a cercarne di nuovi e non ho inventato niente che non fosse già trovato. Ma ho archiviato pagine e pagine di idee mediocri e sconsigliabili che, temo, qualcuno scoprirà e userà.

Innamoratevi di un nome prima di aver verificato se è libero

Dovreste scegliete una decina di idee e cominciare a vedere se è libero il nome su internet (vedi la prossima pagina) e se su Google appare qualche omonimo o qualcuno che somiglia.

Se un nome vi piace tanto da convincervi prima di aver fatto queste operazioni, attenti: forse vi state facendo un danno che vi porterete dietro tutta la vita.

Istruzioni per perdere un acquirente motivato

Gli errori nella comunicazione possono essere infiniti.
Di alcuni non sappiamo neanche se sono errori: la comunicazione non è una scienza esatta e tante volte proprio quella che sembrava una scempiaggine si è rivelata un’idea anticonformista ed evolutiva.

Però anche nell’arte di sbagliare non siamo originali.
Una decina di errori viene ripetuta con ostinazione: sono la causa principale di quasi tutti i guai di comunicazione e difficilmente diventeranno “errori generativi”: sono errori di superficialità, presunzione, fretta o mancanza di cura; il fatto che tutti li ripetono non è un alibi ma un’aggravante.
Siccome ci vuole un po’ di fantasia anche nell’autolesionismo, questo manuale vi raccomanda di riconoscerli ed astenervi. Voi risparmierete un sacco di tempo, soldi, carta e arrabbiature; il pubblico risparmierà fastidio e non vedrà confermati i propri pregiudizi negativi.

Smettendola con questi errori si rimuoverebbe il primo ostacolo alle nuove forme di economia di piccola scala e a filiera corta, che non è né economico né tecnico: è culturale.

Troppo bello per essere vero?

Riassunto delle precedenti puntate: se siete etici e amici dell’ambiente, se lavorate coerenti a dei valori, se il business vi interessa solo per una dignitosa sussistenza e non fine a se stesso, allora i consigli di questa serie di libriccini possono abbattere le vostre spese pubblicitarie di qualcosa come il 90 – 95%.
Hai!, direte voi se non avete ancora letto il primo librino, ecco l’ennesima ricettina miracolistica di un nuovo tipo di marketing che promette di  fare magie. No, è il contrario ed è più radicale: si tratta di non fare affatto la parte più costosa e importante del marketing: la pubblicità. O comunque di farne pochissima e solo in canali alternativi.
Non è facile, non sto promettendo pasti gratis, ma è fattibile. Invece di spendere soldi, tempo, fatica, materia ed energia per colpire il pubblico, stiamo scoprendo come farci trovare da chi ci cerca.

Quindi avremo pochi contatti ma buoni, che:
– ci hanno cercato, trovato e sono motivati a sceglierci;
– condividono, o almeno apprezzano, le nostre scelte ecologiche, esistenziali e civili;
– spesso sono non singoli ma gruppi, disparati : associazioni, GAS, CRAL, parrocchie, società sportive, interattori di un certo blog, ascoltatori di una piccola radio…
– se sono soddisfatti continueranno a sceglierci (con una fedeltà che il mercato business se la sogna, alla faccia delle sue card di fidelizzazione o dei suoi regali a Natale);
– se sono soddisfatti, ciascuno di loro avvierà un’onda il passaparola: neanche George Clooney è un testimonial potente quanto un qualsiasi vostro cliente contento che vi consiglia ai suoi amici;
– ti apprezzano come sei; tu non sei omologato né “normale”, questo migliora la tua reputazione; nel mercato standard, che è più conformista, invece la peggiorerebbe;
– spesso lungo questa strada conosci realtà simili a te, ne nasce uno scambio di competenze, merci, visibilità e anche di amicizia: siamo persone e non bolle d’accompagnamento.

Troppo bello per essere vero? Certo: bastano pochi errori per perdere questi contatti e non rivederli più.
Nelle prossime pagine ne vediamo una decina: diffusi, frequenti e ripetuti con ostinato autolesionismo.

9 L’impresa col senso del limite è quella che sta meglio

Chi promette crescita produce debito e crisi.

Serge Latouche

Quando parliamo di decrescita, ovviamente, non diciamo che un’azienda non debba crescere.

Come un bambino, certo che deve crescere; ma solo fino ad una certa dimensione ottimale per non essere:
– né sottodimensionata, cioè fragile, marginale, sconosciuta, con competenze troppo generiche e tuttiste, poco capace di acquistare abilità nuove, ricattabile dall’umore volubile di pochi clienti…
– né sovradimensionata quindi frammentata in settori troppo specializzati e incomunicanti, capace di ragionare solo su dati quantitativi (quello che si può misurare coi numeri è solo una parte di quello su cui occorre pensare) e rischiosamente dipendente da logistiche complesse.

Chissà perché tanti imprenditori corrono verso indebitamento cronico, leasing onerosi per i macchinari, complicazioni logistiche sempre imprevedibili, assunzioni precarie di persone che saranno licenziate prima di acquisire delle abilità, capannoni e magazzini sempre troppo grandi o troppo piccoli, venditori che non riesci a controllare (e chissà cosa promettono al cliente…). E, naturalmente, forti spese di marketing.

Quanto più è instabile l’equilibrio nella contingenza economica, quanto più occorre essere poco sbilanciati.

L’azienda sta bene se l’organizzazione interna tiene l’equilibrio.

L’imprenditore piccolo non vuole stare nel toboga di questi anni.
L’equilibrio si gioca continuamente nella reciproca correzione tra le piccole disarmonie delle diverse parti dei sistemi della qualità ( CQ e CSR). In questo caso produce e vende il giusto, con una sufficiente capacità elastica di aumentare o diminuire un pochino secondo le contingenze, ma restando in una media di crescita zero e accumulando finanziariamente solo quel minimo che basta a tollerare perturbazioni o incidenti.

Crescere non significa solo mangiare di più ma anche essere prede migliori: i pescecani (che siano banche, multinazionali o, più spicciamente, le mafie), sono lì che aspettano: certamente preferiscono mangiarsi un branzino che una sardina.

Il problema dell’esposizione eccessiva con le banche è tipica dei due estremi, troppo più piccoli o troppo più grandi della dimensione ottimale; capita in in ogni posto del mondo ma in Italia, con le banche parassitarie e sleali che abbiamo, è più pericoloso. Junus e la Grameen Bank hanno dimostrato che il debitore migliore per una banca è una donna povera del Bangla Desh: statistiche alla mano con lei è molto più sicura la meticolosa restituzione del prestito che con un affarista di Wall street. Ma, ci scommetto, la vostra banca non la pensa così.

Anche per questo è meglio crescere solo fino alla giusta via di mezzo. Come il bambino quando è diventato adulto, crescita zero: sarà il momento di smettere di espandersi in dimensioni e piuttosto evolversi in organizzazione interna e in capacità di scambio: mettere insieme il suo sapere e il suo fare in un saper fare. È un processo, non una meta. A quel punto è l’ora di fare figli: interagire nel mondo e favorire la generazione di nuove aziende con lo stesso spirito: libere, leali ed autonome. Come un bosco sano, che cresce continuamente ma resta sempre uguale.

Obesità: eliminare la crescita superflua

Quando il buon senso riesce a far breccia, quello che un giorno prima sembrava ingenuo o estremista, diventa rapidamente mainstream. Perfino il Sole 24 ore ha cominciato a dedicare pagine e pagine ai G.A.S. , all’efficienza energetica o ai mercati di fattoria; ricordate pochi anni fa qual’era l’opinione di quella parte? Oggi organizzazioni come la Coldiretti dichiarano che l’unico scampo per i piccoli produttori è la qualità della filiera, meglio se corta e tracciabile.
Sarà capitato anche a voi di andare in un buon ristorante Slow Food e vederci l’industrialotto, il politico o il giornalista di chiara posizione liberista intento a discettare sull’aroma di quel raro caprino delle langhe o di quel vino biodinamico maremmano. Ci basta? direi proprio di no.
Le trentanove organizzazioni che hanno generato la Città dell’Altra Economia a Roma, nella loro Carta dei Principi, elencano sette parole-insegna: reciprocità, pariteticità, cooperazione, solidarietà, trasparenza, inclusione e partecipazione.
Questa è ingenuita? radicalismo? No, è solo buon senso.
Dice Serge Latouche:1 Non uso mai la parola decrescita per parlare la recessione, di cui al massimo si può dire che è una decrescita forzata. Perché la decrescita non è la “crescita negativa”, che in una società basata sulla crescita la è cosa più terribile al mondo (perché fa aumentare la disoccupazione, non ci sono più le risorse per pagare la salute, l’educazione, la cultura ecc.). Questa è appunto la situazione tragica che viviamo oggi. Per questo dico sempre che non c’è niente di peggio di una “società di crescita” senza crescita. La società di crescita con la crescita all’infinito ci porta direttamente a fracassarci contro il muro dei limiti del pianeta, ma la società di crescita senza crescita porta alla disperazione. Per questo dobbiamo uscire da questa logica, dal paradigma della crescita per la crescita infinita… Almeno il progetto di decrescita può creare la speranza e andare verso quello che il mio collega inglese Tim Jackson chiama “una società di prosperità senza crescita” e che io preferisco chiamare una “società di abbondanza frugale” (che sarà il titolo del mio prossimo libro che uscirà in gennaio 2012)

1L’intervista a Rai3 è sbobinata su www.democraziakmzero.org 31 dic 2011

8 Pubblicità, lingua matrigna ?

Somigliamo a un contadino dell’ottocento, che capiva gli ordini dei padroni in italiano, ma sapeva rispondere solo in dialetto.
La differenza nella capacità linguistica separa chi comanda e chi obbedisce.

Succhiata come il latte

La pubblicità si atteggia a scienza difficile che appartiene a pochi guru, ma non è vero; tutti noi, in quanto riceventi, ne conosciamo benissimo ogni sfumatura; il problema è che si tratta di una competenza passiva.
E’ un linguaggio che assimiliamo come una lingua materna, contate quanti spot subiamo ogni giorno fin da bambini. Aggiungete i segni che invadono il nostro territorio, il nostro paesaggio quotidiano. Fin da piccoli i marchi hanno conquistato il nostro tempo e il nostro spazio e li impegnano con seduzioni potenti ed immaginifiche.
Quando si dice “lingua materna” intendiamo un sapere collettivo, la somma di impronte depositate in ciascun cervello. Però se fosse una comune lingua verbale, come ad esempio l’italiano, ci sarebbe la parole di ciascuno: l’aspetto individuale e creativo del linguaggio che dipende dal singolo individuo, “atto di volontà e intelligenza” (cercate su Wikipedia: Lingua_idioma o De Saussure).

Lingua matrigna

“Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera” ha detto Tahar Lamri (in italiano) in una bella conferenza a Mantova Letteratura. È la condizione degli scrittori di popoli colonizzati e migranti, che scrivono libri nelle lingue europee e non nelle proprie.
Si può pensare nella stessa maniera per noi rispetto alla pubblicità? Vedo un’immensa ricchezza in quelle forme d’arte che si impossessano dell’advertising e ne sovvertono senso e scopi: gli artisti pop, i rapper, i graffitari, i videomaker, i mediattivisti, tutti coloro che alterano, mescolano, smontano e rimontano, storpiano i frammenti di tutti quei sogni artificiali di opulenza, cibo, sesso, status symbol e li trasmigrano in nuove forme di arte metropolitana, nuovi linguaggi, nuove soggettività.
Abbiamo cominciato pensando al contadino che parlava solo dialetto; “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, diceva Pasolini nel ’51; oggi chi s’è inurbato il dialetto l’ha perso, e con esso la padronanza cognitiva delle cose.
Che nascano nuovi slang metropolitani è meraviglioso, anche se i puristi l’hanno a lungo considerata sottocultura. Che ne nascono di tecnologici e crossmediali è intrigante, sicuramente divertente, probabilmente importante.
È l’alfabeto nascente dei contenuti generati dall’utente, la nuova lingua digitale che parleranno i nostri nipoti, volgare quanto lo era il volgare per Dante. È bellissimo che l’uomo riesca a generare intelligenza e senso anche nelle situazioni più desolanti: succede a chi è in una buona rete sociale o ha sufficiente forza culturale, morale o psicologica. E gli altri?

Diventiamo noi il prodotto

Gli altri, provvisti di una dose inferiore di cultura e grinta, gradualmente subiscono una lenta transizione da cliente a merce.
Non è come la metamorfosi di Kafka, non ti sveglierai una mattina scoprendo di esserti trasformato in una sottiletta. È una mutazione lenta che comincia nell’infanzia e ci porta in età adulta a giudicare noi stessi e a pianificare il nostro comportamento sociale comportandoci da prodotti e paragonandoci ai cliché e agli standard della pubblicità televisiva.
Se sei debole culturalmente o sei molto giovane, senza particolari anticorpi culturali o psicologici, ti guardi allo specchio e ti chiedi subito come sei messo a pancetta, tette, capelli… cioè che merendina sei nel mercato della stima, della visibilità e dell’affetto. Se esci con gli amici non ti vesti, ti travesti da chi vorresti essere. Nel dialogo magari ripeti le battute e dei salotti televisivi… ti guardi intorno e ti chiedi che share hai, se ti vendi bene al tuo pubblico. Se ti senti un prodotto mediocre, te ne stai in disparte.
Non sai cosa siano il tribal marketing o la brand experience ma li pratichi inconsciamente: tu sei il tuo brand nel mercato dell’attenzione. Peccato che sei solo un sottoprodotto: che desolazione.

Calciatori e veline

Quando i bambini dicono che da grandi vogliono fare i calciatori o le veline, voi pensiate che siano stupidini; no, purtroppo: hanno imparato come gira il vento dalla più potente agenzia educativa che non è la scuola o la famiglia ma la TV. Chi sta là dentro, nel piccolo Olimpo dello schermo, viene visto, dunque è vero; noi non siamo visti, quindi il mondo fasullo è questo al di qua dello schermo.
Lo sa ogni maestra che si vede una ventina di figli unici poco ascoltati (anzi, ora sono diventati 28 per classe) ciascuno con un disperato bisogno di essere visto individualmente: quante bizze, performances, trasgressioni, frigne, provocazioni per guadagnarsi uno scampolo di visibilità. E’ un tema che io chiamo sindrome del bambino trasparente ed ho trattato in altre pubblicazioni (se a qualcuno interessa, basta googlarlo).
Se restano culturalmente deprivati, gli unici strumenti linguistici che possiedono appartengono a questa lingua catodica: diventare personaggi, cioè non persone ma prodotti. Gustavo Zagrebeklsky dice “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità” (googlatelo con la parola chiave biennaledemocrazia).
Io propongo di mettere questo concetto accanto a quello del lutto per la mancata visibilità: nel ’68 Andy Warhol aveva promesso che avremmo avuto tutti 15 minuti di fama mondiale. Chi s’è fregato i 15 minutes of fame di questi ragazzi?

7 Critiche specifiche al marketing

Parole estranee all’uomo, come a un gatto la qualità dei suoi peli, sono comodamente installate nella nostra memoria, parole che ci danno la caccia, tiranne.
Ma c’è anche la parola che ci salva. È sempre una di quelle per cui ci si suicida.

Edmond Jabés

Siamo abituati a credere che la fabbrica sia una cosa concreta, materiale, “strutturale”e che invece il gusto con cui i clienti scelgono appartenga alla sfera del pensiero, delle“sovrastrutture”.
No, da tempo il marketing fa il market, non viceversa; marketing è il participio presente di to market. Ricordatevene tutte le volte che trovate frasi come “mettersi sul mercato”, “la legge del mercato”: a parte le apparenze, il marketing è la struttura (definisce i rapporti di forza e i meccanismi), il mercato è la sovrastruttura, l’ideologia. Resta ideologia anche quando si materializza in milioni di container cinesi, in file di tir puzzolenti, in faraonici centri commerciali che dissestano il paesaggio.

É una forma di colonialismo

Forse diciott’anni di berlusconismo sculettante ci hanno fatto idealizzare la situazione oltralpe, ma l’ordine mondiale è nelle mani dei brand, che spesso contano più degli stati; il mondo è sempre più diviso in produttori poveri che lavorano a due dollari al giorno e consumatori occidentali semi-disoccupati la cui missione nella vita è comprare robaccia fabbricata da altri.

Ha lo scopo ignobile di vendere troppo

Siamo vicini al picco del petrolio e di molte altre materie prime. Il cambio climatico promette cataclismi immani. Vendere roba inutile è come offrire un litro di rosso a un anziano con la cirrosi epatica: se ha una dipendenza, certo che gli piace.
Per la nostra dipendenza, hanno sostituito il medico con l’oste: ripete la sua ricetta medica dalla TV decine di volte ogni sera. Tutta la catena del marketing ( non solo l’advertising, anche branding, naming, pricing, packaging, placing, perfino il costumer care,… ) ha per scopo convincervi a spendere i vostri soldi per comprare roba quasi sempre inutile, per la quale si spreca energia e materia e che inquinerà anche dopo, nello smaltimento.
Con lo smarketing vogliamo riprenderci quel surplus economico oggi sprecato in materia ed energia e indirizzarlo verso il benessere reale e la convivialità.

Allunga la filiera e sovraccarica il costo delle merci

Per noi il mestiere del pubblicitario può essere morale solo se accorcia la filiera, solo se attraverso la comunicazione riduce i costi economici, ecologici e umani nel processo tra lavoro e consumo.

Separa essere ed apparire

Il primo mestiere del marketer è donare una personalità a oggetti insignificanti e anonimi. A cibi industriali, vestiti di pessima stoffa, suppellettili tutte simili vengono dati un nome, un colore, un carattere… quella cosa chiamata brand. Nel mercato di massa avere un buon brand è fondamentale; che sia buono il prodotto, invece, è poco influente.
Voi, “piccoli e buoni” che leggete questo manuale, avete l’esigenza opposta, avete già una personalità singolare nonostante un mondo che cerca di omologarvi; dovete narrarla, renderla chiara e trasparente. Non è una strada simile o parallela al marketing, è esattamente la stessa strada percorsa nella direzione opposta, con gli scopi opposti.

Ci condiziona ad essere insaziabili

Una persona soddisfatta compra il minimo indispensabile. State una settimana in natura lontano dalla TV: scoprirete che non vi serve quasi niente, le cose importanti della vita sono gratis.
La nostra capacità di essere felici è il vero problema del marketer, quindi si spendono miliardi di dollari per impedirla. L’advertising ci programma per guardarci allo specchio e sentirci brutti, girare per strada e sentirci mal vestiti, sentirci affamati benché sazi, aver sempre più voglia di essere eccitati, desideranti, somigliare a qualcun altro; sentire sempre che ci manca qualcosa; come se la città, la casa, il corpo fossero un enorme carrello sempre troppo vuoto. Siamo ancora capace di uscire la sera e incontrare gli amici senza dover spendere qualcosa da qualche parte, senza dover consumare?

Rende l’azienda sorda

Se un soggetto (ente, azienda, associazione) appalta al marketer la progettazione dei suoi output, difficilmente avrà i canali aperti per ricevere input e scambiare comunicazione colla propria clientela.

Consegna i tuoi soldi a chi li usa per comprare i giornalisti

Per noi non è indifferente il mezzo su cui paghi un’inserzione. Specialmente essendo in Italia, dove i giornalisti possono far carriera comoda solo autocensurandosi o vendendosi ai potenti.
Anche per questo, ma non solo per questo, siamo convinti che chiunque canti fuori dal coro debba cercare altre voci fuori dal coro e cambiare musica: se devi scegliere una radio, un giornale, una rivista… scegli chi ti somiglia e, tra le altre cose, incontrerai il lettore, l’ascoltatore che cerca te.

La merce diventiamo noi

È un meccanismo linguistico, la pubblicità è una lingua che capiamo ma non parliamo.
Chi di voi insegna lo vede in classe, dalle materne all’università, spesso anche dal nido: la pubblicità è talmente una lingua che i giovani stessi si conformano a merce.

Il prossimo capitolo tratta esattamente di questo.

6 Schioppi contro carri armati

“Non è possibile fare la guerra in questo schifo!”
nel film Lebanon, pronunciata da uno dei militari nel tank

Volantini contro televisione

Ho già usato la metafora dei “partigiani della comunicazione”. Merita alcuni approfondimenti.
Pensate ai partigiani veri, coi loro fuciletti, quando vincevano sui panzer tedeschi per agilità fisica, mentale e logistica. Voi dovete competere, con qualche foglietto in bassa tiratura o con un blog fatto in economia, contro l’impero della televisione, che prende almeno 3 ore al giorno al 95% di noi italiani, manipolando il concetto di “normalità”, l’idea del mondo e la stessa immagine che ciascuno ha di se stesso.

La forza della TV non è la sua potenza di fuoco

La forza del carrarmato sembra tutta nel suo cannone, ma ovviamente non è nella capacità di offesa ma nella sua inespugnabile corazza di difesa che fa rimbalzare le pallottole dello schioppo. Però la corazza lo rende pesante, miope e lento di riflessi.
La TV sembra leggera ed agile perché viaggia via etere e ci nutre di effimero; in realtà è un pachiderma obeso, vecchio e ripetitivo.
In Rai e in Mediaset (se non mi credete, chiedetelo a chi ci lavora) un buon 70% dello sforzo mentale è dedicato a sopravvivere negli equilibri di potere interni.
Il 20% è dedicato a tentare capire cosa succede fuori: i sensi del pachiderma sono approssimativi. I numeri ( share, ascolto medio, auditel…) ormai sono una “non-sineddoche”, cioè un frammento che non somiglia affatto al tutto e ti lascia intuire che le cose importanti avvengano fuori dal periscopio, come i visori del tank nel film Lebanon.
Resta un 10% di tutta la fatica erogata per cercare di fare il proprio mestiere, ma coi riflessi lenti in un medium che, invece, per fare cultura di massa in una società che cambia in fretta, dovrebbe essere rapido e sperimentale. È evidente che il risultato tende ad essere ripetitivo, prevedibile: la clonazione dei format, propri o altrui: quelli che hanno funzionato e che quindi si presume funzioneranno all’infinito.

La prepotenza è goffa per sua natura

Nei golpe degli anni ’60 e ’70 si usavano ancora i carri armati: un solo carro armato può sterminare una piazza piena di manifestanti, ma anche allora bastava scappare nei vicoli stretti o lanciare qualche bottiglia di benzina da una finestra: agilità mentale e logistica. Lo si è visto recentemente nella cosiddetta “primavera araba”, dove ha fatto irruzione la crossmedialità telefonino + internet.
La prepotenza fisica militare fa male, può provocare enorme dolore, tuttavia è goffa e miope per sua natura. Infatti la prima cosa che facevano i carri armati in un golpe, prima ancora che prendere il parlamento, era prendere la televisione.

Vuoi un altro cucchiaino di questa deliziosa merda?

Dagli anni ’80 con la tv commerciale è diventato molto più facile controllare il consenso: telenovele, sport e qualche bella figliola che danza discinta; fa tutta un’altra impressione qualche natica nuda, rispetto al sangue sull’asfalto. È più gradevole perché te ne stai in poltrona; col corpo stravaccato e sonnacchioso, il cervello rumina tutto quello che gli danno.
La prepotenza comoda, di cui la vittima in pantofole è inconsapevolmente complice, è meno goffa? Dopo trent’anni di questa televisione forse sarebbe il caso di dire di sì: ad esempio per la rappresentazione del femminile che spregia il corpo delle donne ed il cervello degli uomini. Però affermarlo sembra un po’ “vetero”: generico, velleitario; anche bigotto. Perché?

Mediocrazia è una parola ambivalente: potere dei media e potere dei mediocri. Sicuramente è un potere che si basa sulla scarsa reattività, sulla non indignazione. Passioni timide, uggia facile, pregiudizi su tutti e su tutto: dal buon senso si è passati al cattivo senso comune: è un prodotto di marketing pianificato a tavolino e ha regole facilmente riconoscibili (il piacere di spararla grossa, il compiacimento pseudo-trasgressivo delle parolacce, i litigatoi pseudopolitici,…).
Mediocri-mediatiche le regole, i valori e i modelli di organizzazione. Per non parlare dello spessore umano degli attori. Il culo che ha governato il Paese per vent’anni non è quello della ventenne che si dimena davanti alla telecamera, né l’isomorfa faccia di molti politici; è il nostro, sul divano.

Disintossicarsi

Quando un partigiano conquistava un carrarmato, non se ne impossessava anche se, apparentemente, sarebbe stata la soluzione per pareggiare la potenza di fuoco.
Invece ci buttava una bomba a mano, si limitava a metterlo fuori uso, perché avere un carro armato significa dipendere: dal carburante, dal munizionamento, dalle strade, dai ricambi… insomma perdere l’agilità di chi sta sulle montagne.
Analogamente per voi avere uno spazio in TV o trovare un grosso budget per fare la grande pubblicità potrebbe sembrare una soluzione per pareggiare la potenza di fuoco. Invece creerebbe dipendenze: logistiche, tecniche e professionali in un sistema fatto per permettere ai pesci grossi di mangiarsi te e tutti quelli come te.

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